Architettura come «arte bifronte», con la quale realizzare non solo «i nostri interessi individuali, ma anche lo spazio che tutti noi condividiamo». A pochi giorni dall’apertura al pubblico della 16esima Mostra Internazionale di Architettura (che si svolgerà a Venezia dal 26 maggio al 25 novembre) il presidente della Biennale Paolo Baratta traccia la mappa entro cui si muove l’esposizione curata dalle progettiste irlandesi Yvonne Farrell e Shelley McNamara. Un percorso espositivo con 71 partecipanti tra i Giardini e l’Arsenale sotto l’etichetta del Freespace (spazio libero), titolo della Mostra e del Manifesto attorno al quale hanno lavorato le due curatrici, più il consueto viaggio tra i padiglioni e le partecipazioni nazionali, che quest’anno saranno 63, con 6 nuovi Paesi: Antigua & Barbuda, Arabia Saudita, Guatemala, Libano, Pakistan e Santa Sede.
Presidente, che architettura è quella disegnata da Freespace?
«È un’architettura che può dare qualità non solo agli edifici da noi abitati, ma a tutto lo spazio che abitiamo. Il verbo “abitare” è sempre stato considerato nella sua dimensione possibile. Può andare ben oltre il semplice “vivere dentro”: abitare vuol dire esprimere tutte le nostre potenzialità e i nostri interessi nei luoghi nei quali viviamo. Questa Biennale riafferma il concetto dell’abitare nel senso più ampio e comprensivo del termine. Con le due progettiste, ad esempio, abbiamo guardato dalla sede della Biennale a Ca’ Giustinian l’architettura della facciata di San Giorgio. E io ho detto loro: quando l’architetto (Scamozzi, ndr ) disegnava quella facciata, in realtà stava pensando a noi. A noi non consumatori, ma “camminatori”, cioè a coloro che vivono la città, e in un certo senso a noi come cittadini che trovano, nello spazio realizzato dall’architettura, la conferma del proprio essere cittadini. Non a caso chiamo l’architettura “la Costituzione nascosta”. Perché c’è l’idea che con l’architettura realizziamo un ulteriore diritto ad avere spazio libero e gratuito. Trattandosi di beni pubblici, questi possono essere il risultato di un’azione collettiva o di un dono».
C’è un ritorno all’etica dopo anni di architettura dominata dalle archistar?
«Tale dono non sempre può essere figlio di uno slancio etico, ma di un intelligente egoismo consapevole. Quello che dico spesso, è che il più brigante degli antichi mercanti veneziani, dal quale non ci si aspettava gesti etici, quando costruiva il suo edificio aveva la perfetta consapevolezza che stava contribuendo a costruire la città di Venezia. Avaro fino in fondo circa le sue monete, finiva con l’essere generoso proprio attraverso l’architettura. Quindi parlerei di consapevolezza, piuttosto che di etica. E di cultura».
Parla da una Venezia dove questo è più evidente, ma anche da un Veneto dove in nome del «proprio» si sono fatte anche tante brutture.
«Dire che sono brutture è dar loro troppa importanza, sono delle banalità, perché non c’è un pensiero compiuto. Per usare un termine di Italo Calvino si tratta di “cittadini dimezzati”, che quando costruiscono, costruiscono per una metà di sé. Non per l’altra metà, che dice: “Io sono parte di una vita comune, non sono qui per accaparrarmi lo spazio dove vivo, ma per arricchirlo”. È qui, in questo passaggio, la differenza».
Questa Biennale può aiutare a prendere coscienza di questo?
«Esattamente. Di quello che c’è fuori di noi, essendo quello anche il risultato della nostra azione individuale. Lo spazio fuori di noi non è lo spazio di nessuno, ma quello che noi contribuiamo a formare. Non solo in Veneto, ma anche in Italia c’è un territorio fatto di cose affrettate. Qui la rappresentazione di sé come soggetto dotato di reddito, ma preoccupato del suo benessere e della sua sicurezza, diventa quella di un cittadino che perde di vista una sua parte importante».
Nella mostra delle curatrici c’è un dialogo con Venezia.
«Sì, ci sono i progetti, ideati ma non realizzati, di Louis Kahn, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright. Sono solo progetti, alcuni con qualche sfumatura d’utopia, ma ci si può solo forse pentire di non averli realizzati. C’è la presenza degli architetti dell’M9, il nuovo museo di Mestre. Poi con un garbo straordinario, si vede New York minacciata dalle acque, per far vedere che non è solo un problema di Venezia».
È una Mostra che il pubblico potrà amare?
«Assolutamente sì. I pezzi non sono installazioni, ma progetti compiuti. Ho suggerito alle curatrici di essere esplicite ma non fino in fondo, il pubblico deve essere sfidato. C’è un interessantissimo modo di rivalutare il Padiglione Centrale abbattendo pareti chiuse, e fra queste una parete che impediva la vista sull’acqua. Il Padiglione è diventato una sorta di “groviera” e non c’è più gerarchia tra le sale. La visita è circolare e nel primo salone ci sono giovani architetti che omaggiano alcuni architetti del passato».
Ci sono novità anche all’Arsenale, col nuovo assetto dell’area ristorante.
«Il ristorante-bar è veramente bello, è fatto con grande rispetto per tutti. I colori sono quelli dell’Arsenale, con impianti a norma».
È la prima volta che non sapete che ministro verrà a inaugurare la Biennale?
«Eh sì, è la prima volta. Sarei felice che se nominano il ministro in questi giorni venisse subito, così cominciamo un dialogo su questa strana e straordinaria creatura che è la Biennale. Essa non è di immediata percezione in tutta la sua complessità, e quindi parlarne è sempre opportuno. Sono molto fiducioso in questo Paese e nelle istituzioni. Che certi movimenti vadano metamorfizzati in azione di governo, questo fa parte della storia di una democrazia elettiva. Vediamo quello che ci aspetta nei prossimi mesi, faremo di tutto perché tutto ciò che di totalmente nuovo viene posto, possa essere contemperato con le realtà che io considero ‘costituzionali’. Considero la Biennale come un pezzo della Costituzione italiana».