Si cammina su un filo sempre più sottile. Il governo mostra di possedere insospettabili doti acrobatiche. Il consenso, si sa, è una sostanza stupefacente. «Inebria», come dice il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il vento che si solleva dalla sua base popolare sembra sorreggere l’esecutivo a dispetto della forza di gravità dell’economia. Non c’è livello di spread che possa fargli perdere l’equilibrio. Il traguardo delle prossime elezioni europee, con il probabile successo delle forze sovraniste, è vicino. La sensazione di alcuni esponenti della maggioranza è che basti solo un passo per porre i piedi sulla piattaforma sicura di un potere più solido e duraturo. Tiremm innanz dice il milanese non risorgimentale Matteo Salvini facendo il verso al più eroico Amatore Sciesa. Forse ha ragione lui, chissà.
Noi continuiamo a pensare che i «numerini», come li chiama l’altro vicepremier Luigi Di Maio, abbiano una loro logica inesorabile. Ma la politica nell’era dei no vax, della ribellione alla competenza, del dileggio degli esperti, può sfidare persino le leggi della matematica e della fisica. I giocolieri affascinano, sono applauditi. Ma il loro spettacolo generalmente dura poco. Se qualcosa poi va storto sono dei semplici saltimbanchi. Ecco, qui l’etimologia illumina. Saltimbanco è colui che salta e fa saltare il banco. E qui l’azzardo è più evidente. Il banco siamo noi.
Miti e irritabiliNei giorni scorsi, il mite tedesco Klaus Regling, capo dello European Stability Mechanism, ovvero il fondo salva Stati, ha irritato il governo di Roma con una semplice osservazione. Il legame perverso tra debito sovrano e banche nazionali lo si pagherà caro e subito. È un rischio da non sottovalutare specie se lo spread dovesse raggiungere quota 400. Alcune banche, costrette a un mark to market sul valore dei titoli di Stato in portafoglio, vedrebbero indebolirsi i propri coefficienti patrimoniali al di sotto dei minimi imposti dalla Bce. Al punto da rendere urgenti aumenti di capitale. E il fatto che questa annotazione venga dal presidente di un fondo che ha come missione statutaria quella di salvare stati in difficoltà, infliggendo loro però pesanti condizioni, non è del tutto trascurabile.
Non si può reagire con un’alzata di spalle o con qualche battuta di circostanza. Secondo i dati della Banca d’Italia, gli istituti di credito italiani avevano in portafoglio, nell’agosto scorso, titoli nazionali per un controvalore di 364,7 miliardi, in leggera discesa. Le compagnie assicurative, in base ai dati 2017, risultavano aver investito in Bot e Btp il 45 per cento del totale per una cifra di 315 miliardi. Banche e assicurazioni detengono insieme quasi un terzo del debito pubblico che ha superato i 2 mila 300 miliardi. Da metà maggio, ovvero da quando ha preso forma il «contratto del governo del cambiamento», a oggi, il mercato le ha punite molto più dell’effetto dovuto al deprezzamento dei titoli pubblici in portafoglio. Giovanni Razzoli di Equita Sim ha calcolato — lo ha riportato Luca Davi su Il Sole 24 Ore — che per alcuni titoli è come se lo spread fosse andato già a quota 770, cioè a un livello nettamente superiore a quello della crisi del 2011 quando toccò quota 574. Dando per scontato il probabile declassamento del Paese da parte di Moody’s e Standard and Poor’s. È il gioco perverso delle aspettative. Doloroso, costoso. Ma profondamente ingiusto, visti i fondamentali dei bilanci delle società coinvolte che pagano caro la loro italianità.
Il filoBanche e istituti di credito possono essere antipatici al nuovo potere. «Non torniamo indietro per sette od otto banche», ha detto Luigi Di Maio di fronte alla caduta dei titoli in Borsa. Ma il Tesoro ha bisogno, in questo momento, del loro aiuto. Un estremo paradosso. Sono loro che tengono teso il filo sul quale l’improvvido acrobata governativo si è avventurato. Il successo delle prossime aste di titoli pubblici dipende soprattutto dalla loro disponibilità a sottoscrivere i titoli pubblici. Mercoledì scorso il collocamento di 6 miliardi di Bot a sei mesi è avvenuto a un tasso vicino all’1%. Ad aprile era ancora in negativo. Il costo supplementare per il Tesoro è cresciuto di 30 milioni per ogni miliardo emesso. Giovedì i Btp a tre anni sono stati venduti a un tasso del 2,51%, in netta ascesa rispetto all’1,20 del mese precedente. Il costo degli interessi per ogni miliardo emesso è passato, in soli 30 giorni, da 12 a 25 milioni. In entrambi i casi banche e assicurazioni sono state sollecitate a intervenire. Non si sa se abbiano fatto il dovuto o qualcosa in più. Speriamo nella prima ipotesi.
Secondo una ricerca di Banca Imi, il fabbisogno da finanziare nel 2019 è stimato in 63 miliardi. Le emissioni lorde oscilleranno tra i 410-420 miliardi, di cui poco più di 200 a medio e lungo termine. Gli acquisti della Bce, con l’esaurirsi del Quantitative Easing, saranno limitati al rinnovo dei titoli in scadenza. Tra il marzo del 2015 e la scorsa fine di settembre, Francoforte ha comperato, insieme alla Banca d’Italia, titoli governativi e di agenzie italiani per 360 miliardi. L’ampiezza di questi «numerini» dovrebbe indurre alla massima prudenza. Indebolendo con fuoco amico banche e assicurazioni, il governo falcidia la platea che acquista i propri titoli con i risparmi degli italiani. Anche in un’ottica meramente sovranista, appare una tattica suicida. «Il mercato— sostiene Andrew Lawford, partner di Mazziero Research, società specializzata che monitora i conti pubblici — guarda al rapporto tra l’esposizione al debito sovrano e il patrimonio netto soprattutto delle banche. Un progressivo deterioramento incide direttamente sul requisito minimo patrimoniale (Cet1) richiesto dalla Bce. Crea problemi agli azionisti, ostacola lo smaltimento dei crediti in sofferenza, inaridisce i prestiti alle famiglie e alle imprese». Intesa Sanpaolo, la più grande banca italiana, ha perso dall’inizio dell’anno circa il 20% in Borsa. La capitalizzazione è oggi intorno ai 36 miliardi. Superiore, nonostante tutto, a quella di molti concorrenti internazionali. Al 30 giugno aveva a bilancio 75 miliardi di titoli di stato italiani (28 di proprietà diretta, gli altri delle gestioni) a fronte di un patrimonio netto di 51. Monte Paschi, tra le più deboli, 21 miliardi di titoli di Stato con un patrimonio netto inferiore ai 9. Il gruppo Generali, sempre al 30 giugno, 64 miliardi a fronte di 26. La Cattolica 14 miliardi in titoli con poco più di due di patrimonio netto. Il filo che regge l’economia italiana è ancora più sottile e fragile.