I Derby del Mediterraneo tra Roma e Madrid non è solo una questione di Pil e di calcio. Anzi. La partita più importante tra i due paesi (dopo quella persa dagli Azzurri per 3-0 che ci ha buttato fuori dai mondiali di Russia) è quella in corso ormai da un paio di decenni tra Italia Spa e Spagna Spa. Un braccio di ferro finanziario fatto di Opa, battaglie e scalate ostili – ultime in ordine di tempo quella tra Acs e Autostrade per Abertis e quella tra Enel e Iberdrola perla brasiliana Electropaulo – che ha ridisegnato la mappa industriale delle due nazioni con un risultato chiaro: il Belpaese ha chiuso in vantaggio il primo tempo approfittando del ruolo iniziale di favorito, non fosse altro per le dimensioni della nostra economia. Ha conquistato pezzi importanti dei media e delle tv iberiche, ha messo le mani su Endesa – il gigante elettrico spagnolo – grazie all’offerta da 39 miliardi dell’EneL
Alla distanza però, come è successo nei match per il reddito pro-capite e in Champions League, ad avere la meglio è stata Madrid. Che dalle tic all’abbigliamento, dal turismo fino al trasporto aereo, è riuscita a farsi i suoi interessi molto meglio dell’Italia. Creando – spesso quasi da zero – “campioni nazionali” in grado di competere (meglio di quelli tricolori) sui mercati mondiali. Una pattuglia di punte di diamante che ha dato un contributo decisivo a salvare il paese dall’abisso della bolla immobiliare, liberando l’economia dalla schiavitù del mattone e spingendo il Pil dal 2013 oggi a una crescita media del 2,8% annuo. Terra di conquista L’Italia, in questa sfida, era partita bene. A inizio anni ’90 i rapporti di forza tra le squadre in campo erano ben diverse (il Pil iberico valeva il 43% di quello tricolore contro il 66% di oggi) e la Spagna era terra di conquista per i nostri imprenditori. Mediaset è riuscita a creare Telecinco, ancor oggi la più grande tv privata nel paese, Rcs ha comprato Unedisa, editore de El Mundo – il secondo quotidiano del paese – per poi rilevare anche Recoletos e “Marca”, la Gazzetta dello Sport locale. I De Agostini hanno conquistato Antena 3, altro network locale.
Poi il vento è girato. La Spagna di José Luis Rodriguez Zapatero a inizio millennio ha cominciato a crescere a passo di carica, il governo ha varato un piano a 360% sull’industria nazionale, il capitalismo iberico – grazie all’aiuto delle banche – ha iniziato a guardare all’estero. E la situazione del Derby del Mediterraneo si è ribaltata. L’ingresso di Enel in Endesa ad esempio, arrivato dopo un braccio di ferro con i tedeschi di Eon, è figlio di un accordo tra Zapatero e Romano Prodi in cui Madrid ha concordato il via libera a questa operazione in cambio dell’ingresso di Telefonica in Telecom Italia. Condizione che fino a pochi anni prima non sarebbe mai stato in grado di porre. Il colosso spagnolo delle tic ha pagato carissimo (con 3 miliardi di perdite) l’avventura tricolore, chiusa girando la quota Telecom a Vivendi. Ma proprio il confronto odierno tra i due campioni nazionali delle telecomunicazioni dà un’idea chiara di come sono mutati – a favore df Madrid – i rapporti di forza. Nel 2000 i due gruppi avevano dimensioni simili, con ricavi attorno ai 27 miliardi di euro. Oggi Telefonica fattura 52 miliardi contro i 17 di Tim. Le scalate a debito sulla società italiana hanno costretto il management di Telecom Italia a vendere una per una tutte le partecipazioni all’estero (senza risolvere il problema) mentre il rivale iberico ha fatto shopping in Gran Bretagna, Sud America e Germania e ha avviato in anticipo l’integrazione con tv e media. La Spagna, tra l’altro, non ha lasciato sguarnito il settore elettrico. Ceduta Endesa, ha puntato tutto sulla ex-municipalizzata basca Iberdrola, oggi una realtà diversificata a livello internazionale con 19 miliardi di ricavi, impegnata in una guerra d’Opa miliardaria con Enel per il controllo della brasiliana Electropaulo. L’Opa di Atlantia – costretta peraltro a un compromesso con Acs – sulle autostrade di Abertis ridà in queste settimane un po’ di respiro all’hubris italiana nel Derby del Mediterraneo.
Ribaltone nel Fast-fashion Ma non basta ai Benetton per dimenticare lo schiaffo che Zara è riuscita a rifilare alla catena di abbigliamento della famiglia di Ponzano Veneto. II ribaltone, in questo caso, è da manuale: i Benetton hanno inventato il concetto di Fast-fashion. A inizio millennio fatturavano quasi 4 miliardi mentre Inditex, la casa madre del marchio iberico, era a quota 2,7 miliardi. Poi i ruoli si sono invertiti. Oggi Benetton ha un giro d’affari inferiore agli 1,5 miliardi ed è andata in rosso ne12015 e ne12016. Zara invece ha 7.054 negozi in 94 paesi, ha ricavi per 25 miliardi e fa utili pari al doppio delle vendite del rivale tricolore. Pubblico o privato, il risultato non cambia. Prendiamo il caso Alitalia-Iberia. Entrambe compagnie in forte crisi a inizio millennio ed entrambe controllate dallo Stato. Madrid e Roma hanno preso però due strade diverse: Iberia è stata quotata in Borsa ne12001 (e puntellata dalle quote acquisite dalle banche nazionali) poi nel 2010, una volta rilanciata puntando sul Sud America, si è fusa con British Airways dando vita al colosso Iag. Oggi ha più dipendenti di allora, è in ottima salute e sfida Alitalia in casa nostra con la low-cost Vueling. La storia di Alitalia invece la conosciamo. È stata tenuta in piedi dai soldi dello Stato (alias dei contribuenti, ad oggi 10 miliardi circa), gestita da una politica che ha respinto prima la fusione con Kim e poi – complice il niet di Silvio Berlusconi in chiave elettorale – quella con Air France. E oggi è ancora in perdita, molto più piccola di 18 anni fa e in amministrazione controllata.
Il caso Antonveneta Qualche portabandiera italiano, per fortuna, regge ancora il confronto. La sfida Eni-Repsol ci vede un po’ più brillanti e incisivi anche a livello internazionale. Le nostre banche si sono difese grazie a un po’ di protezionismo. Come quando le avance di Santander al San Paolo sono state respinte con l’intervento di Banca Intesa. L’istituto iberico si è vendicato rifilando a Mps la pillola avvelenata di Antonveneta. E il credito iberico, che sembrava sull’orlo del crac nell’era della bolla del mattone, si è risollevato a tempo record grazie ai soldi della Ue (40 miliardi) ma anche a una capacità di reazione sul bail-out molto più rapida di quella italiana. Come dimostra il salvataggio a tempo record del Banco Popular da parte del solito Santander mentre Roma faticava a gestire le venete e le Popolari in crisi. A
livello numerico, l’Italia Spa ha scalato 149 aziende spagnole contro le 100 operazioni in direzione opposta. Il saldo complessivo a livello di sistema ci vede però in innegabile sofferenza: Madrid ha creato due colossi come Nh Hoteles e Barcelò per gestire il turismo, settore chiave per il paese e un mondo dove le realtà del Belpaese sono ancora microscopiche e troppo parcellizzate. La Seat, dopo l’addio della Fiat, si gettata nelle braccia di Volkswagen ed è fiorita a nuova vita. La Seat Leon è riuscita addirittura a rubare all’Alfa Romeo Giulietta il prestigioso ruolo di Gazzella dei Carabinieri e di Pantera della Polizia. La spagnola Deoleo si è comprata due marchi doc dell’olio tricolore come Carapelli e Bertolli, mentre nel vino, almeno come qualità, le nostre cantine riescono (per fortuna) a difendersi meglio dalla concorrenza iberica che vanta comunque la maggior superficie vitata al mondo. Il simbolo più evidente dei successi iberici nel Derby del Mediterraneo è quello dello sport dove, sul campo, in pista e nei conti, l’Italia è costretta a inseguire. Gli sgarbi di Marc Marquez a Valentino Rossi sono solo la punta dell’iceberg. Real Madrid e Barcellona hanno vinto sei delle ultime sette Champions League. I loro ricavi sono il doppio di quelli della Juventus. La Lega italiana si è arresa all’evidenza e ha affidato a uno spagnolo il suo futuro, ovvero la gestione dell’asta sui diritti tv. Se non puoi battere il nemico, sempre meglio allearsi con lui…