Ci sono circa 430 mila dipendenti che quest’anno potrebbero andare in pensione con «quota 100» perché hanno almeno 62 anni d’età e 32 di contributi. Ma questa è la platea potenziale. Poiché «quota 100» è una scelta volontaria e nel decreto legge che il governo potrebbe varare questa settimana ci saranno alcuni paletti che complicheranno l’uscita dei lavoratori, i tecnici stimano che quelli che effettivamente decideranno di utilizzare questa forma di pensionamento saranno circa 315 mila, di cui il 40% dipendenti pubblici. È questa la platea che dovrebbe consentire di stare nello stanziamento di 3,9 miliardi. Al contenimento della spesa concorreranno soprattutto le «finestre» trimestrali per i dipendenti privati (per loro le pensioni decorreranno non prima di aprile) e semestrali per i pubblici (i primi assegni a luglio) ma, come detto, anche il fatto che non tutti gli aventi diritto lasceranno il lavoro. Vediamo perché.
Nella bozza del decreto è previsto che l’assegno con «quota 100» non sia cumulabile con redditi da lavoro superiori a 5 mila euro l’anno. Il divieto dura fino al momento in cui il pensionato raggiunge l’età di vecchiaia (oggi 67 anni). Questa norma scoraggerà una parte degli aventi diritto, soprattutto fra quei lavoratori con elevata professionalità che spesso quando vanno in pensione fanno i consulenti.
Inoltre, chi lascerà prima il lavoro prenderà un assegno più leggero, anche se per un periodo più lungo. E questa perdita, in alcuni casi, potrebbe arrivare a quasi un terzo dell’importo che si sarebbe preso aspettando la pensione di vecchiaia. Nel decreto non è prevista alcuna penalizzazione diretta per chi scelga di uscire con «quota 100», ma la normale applicazione dei metodi di calcolo della pensione darà luogo a un assegno alleggerito. Uscendo prima, infatti, si possono far valere meno anni di contributi e il coefficiente di calcolo applicato è più basso per le età più giovani, perché il montante pensionistico dovrà appunto essere spalmato su più anni di erogazione. Secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, il taglio dell’assegno cresce «da circa il 5% in caso di anticipo solo di un anno a valori oltre il 30% se l’anticipo è di oltre 4 anni». Tagli che si riducono «attualizzando» la pensione con «quota 100», cioè tenendo conto del fatto che si percepirà per più tempo: si va così da una riduzione di appena lo 0,22% per chi anticipa di un anno a una di quasi il 9% per chi lascia il lavoro quest’anno anziché nel 2025.
I lavoratori si faranno i loro calcoli, ma una parte potrebbe essere comunque spinta dalle aziende a uscire con «quota 100», anzi anche fino a tre anni prima, cioè a 59 anni con 35 di contributi. Lo prevede l’articolo 22, che consente questo «scivolo» nell’ambito di accordi sindacali aziendali che comportino assunzioni. L’assegno di accompagnamento a «quota 100» sarà a carico delle imprese (ma queste non dovranno continuare a pagare i contributi, come invece avviene per l’«isopensione»), che dovranno versare la provvista finanziaria a un Fondo di solidarietà di categoria. L’articolo, poi, consente alle imprese di versare, al posto dei lavoratori, anche i contributi per il riscatto della laurea così da consentire il raggiungimento dell’accesso allo stesso scivolo. Per esempio, un lavoratore con 59 anni e 31 anni di contributi arriverebbe ai 35 necessari col riscatto di 4 anni del corso di laurea. L’impresa deduce gli oneri dal reddito. Il riscatto laurea a carico dell’azienda è infine previsto anche nell’articolo sulla «pace contributiva». Qui riguarda solo chi ha cominciato a lavorare dopo il 1996 e serve per raggiungere la normale quota 100.