L’accusa aleggiava nell’aria già lunedì. Ieri si è concretizzata in alcuni interventi dal palco del seminario dem nell’ex abbazia di San Pastore. Interventi non teneri con il segretario: il Pd va a rimorchio dei 5 Stelle, dicono, ognuno declinando la critica con il proprio stile, Matteo Orfini, Giorgio Gori, Vincenzo De Luca e Andrea Marcucci. Nicola Zingaretti, però, non ci sta. L’accusa gli sembra non solo infondata, ma anche pretestuosa: «Altro che subalterni, siamo gli unici che vogliono far fare al governo uno scatto in avanti per la fase due». Quello a cui mira veramente, il leader del Pd lo ha spiegato con chiarezza ai suoi: «I 5 Stelle alla fine non vorranno fare nessuna alleanza organica con noi. Non ci riusciranno anche se lì dentro c’è chi vorrebbe. Ma con il proporzionale corretto con lo sbarramento, che pure non era la nostra posizione di partenza, un’alleanza post elezioni sarà possibile. Non solo, con quel sistema che non ci vincola ci sarà possibile lanciare un’Opa sul loro elettorato. Per questo l’accusa di subalternità non ha alcun senso».
Ma quali erano stati i rilievi mossi nel seminario? Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori (che qualcuno nel Pd individua come il possibile competitor del segretario) aveva espresso perplessità: «Non mi convince il posizionamento verso i 5 Stelle. Dario Franceschini dice che loro devono venire di qua, invece mi sembra che stiamo andando noi di là». Molto duro l’intervento di Matteo Orfini: «Costruire una forza di centrosinistra con un partito che di sinistra non è, sarebbe un errore gravissimo». Anche il governatore campano Vincenzo De Luca non le aveva mandate a dire: «Evitiamo di omologarci con i partiti che si rinnovano sotto la guida di Toninelli». E pure il capogruppo al Senato Andrea Marcucci aveva usato come esempio l’ex ministro delle Infrastrutture per dire il suo no all’unione con il M5S: «Non mi voglio fidanzare con Toninelli». Zingaretti però tira dritto e a chi gli fa notare i limiti di questo governo ricorda che tutti lo hanno votato, inclusi i suoi detrattori: «Eravamo tutti figli di un compromesso che tutti abbiamo accettato nel giorno del varo del governo». Per questo il segretario invita alla calma sui decreti sicurezza: «Il che non significa non condurre una battaglia, ma dentro una dialettica politica o diventa solo una polemica dentro di noi».
Poi il leader indica un programma possibile. E fattibile, perché non mette in difficoltà il premier e non risulta indigesto al M5S. Cinque gli obiettivi del «programma per l’Italia»: «Una rivoluzione verde per tornare a crescere, il passaggio dall’Italia della burocrazia all’Italia semplice, un Equality act per ridurre le distanze sociali e territoriali, l’incremento di 4 miliardi annui per la spesa per la conoscenza, un piano per sanità e assistenza». La platea applaude il segretario. Alcuni si convincono. Altri meno. Come De Luca, che sbuffa: «Mi sono rotto le scatole di venire a sentire ste chiacchiere del cavolo».