A Riva di Chieri ci sono almeno 350 posti di lavoro appesi a un filo. Il gruppo Whirlpool Embraco ha deciso di trasferire in Slovacchia la produzione di compressori per frigoriferi, un attimo prima di vendere l’azienda ai giapponesi di Nidec per 1 miliardo di dollari. A Rozzano, hinterland milanese, all’ombra dei 187 metri della torre per le telecomunicazioni Telecom, la multinazionale francese Vivendi ha perduto nei giorni scorsi la sua sanguinosa battaglia con i fondi d’investimento, le istituzioni e le Authorities nazionali. Ma in Italia non ci sono solo Embraco, Vivendi, Honeywell, Nestlé (Perugina), Konig e tutti gli altri gruppi internazionali che negli anni passati hanno chiuso, tagliato, licenziato. Non sono tutte così le multinazionali che si sono affacciate sul mercato italiano, non sono tutti cinici speculatori finanziari, né colossi alla costante ricerca di vantaggi di corto respiro, a costo di desertificare stabilimenti e cancellare posti di lavoro, magari pochi anni dopo aver incassato cospicui aiuti dallo Stato per aprire o ammodernare gli impianti produttivi. Ci sono anche multinazionali che in Italia lavorano da anni con profitto, che in Italia cominciano o continuano a investire. Che negli ultimi mesi hanno approfittato della nuova primavera dell’industria manifatturiera italiana — e dei vantaggi del piano Industria 4.0 — per aprire nuovi stabilimenti, per ampliare quelli già esistenti, per assumere operai, impiegati e dirigenti.
A Breganze, provincia di Vicenza, proprio in questi giorni esce dalle linee di produzione dello stabilimento ex Laverda la prima mietitrebbia Ideal, la nuova (avanzatissima) generazione di macchine per l’agricoltura del gruppo americano Agco.
Duecento milioni di investimento (il più grande nella storia del gruppo) che faranno del sito produttivo vicentino il centro di eccellenza europeo della multinazionale di Duluth (Georgia). Cinquanta chilometri più a Sud, a Gambellara, il gruppo giapponese Ebara (3,6 miliardi di fatturato in tutto il mondo) ha inaugurato il mese scorso il suo più grande stabilimento europeo, 54mila metri quadrati, oltre il doppio rispetto a quello precedente di Brendola. Negli ultimi due anni il gigante Philip Morris ha battezzato un nuovo stabilimento a Crespellano Valsamoggia, provincia di Bologna, e ne ha annunciato il raddoppio. Un miliardo di investimento e oltre 2mila posti di lavoro creati (ma nelle ultime settimane alcune centinaia di contratti a termine arrivati a scadenza non sono stati rinnovati). A Longarone, nel distretto bellunese degli occhiali, a fine aprile il numero uno internazionale del lusso Lvmh, insieme al gruppo italiano Marcolin, ha aperto il primo stabilimento di Thelios, la joint venture (51% i francesi, 49 gli italiani) per la produzione di occhiali con i marchi del colosso transalpino. Ottomila metri quadrati, cento dipendenti. «L’Italia è un Paese dove si lavora bene, dove si può fare industria. E il “made in Italy è sinonimo di “saper fare”, di qualità nelle produzioni artigianali e industriali», spiega Gabriella Scarpa, presidente di Lvmh Italia, 23 siti produttivi nella penisola, 9.500 dipendenti (il doppio rispetto a cinque anni orsono) e circa 600 milioni di investimenti negli ultimi 5 anni.
Ma la forza attrattiva del “made in Italy” non è l’unico asset del Paese che le multinazionali puntano a valorizzare, come spiega l’economista industriale del centro studi di Intesa San Paolo Fabrizio Guelpa: «È vero, il mondo chiede “made in Italy” e tutto ciò che è “made in Italy” ha un grande valore sui mercati. Ma i grandi gruppi internazionali cercano anche le competenze, le tecnologie. Dove queste esistono, come in parecchi distretti industriali del Nord Italia, gli stranieri arrivano, investono, si espandono». Difficile dire se siamo all’inizio di un fenomeno nuovo, «ma fatto 100 il fatturato dell’industria italiana la quota prodotta dai gruppi stranieri è intorno al 18, che non è poca cosa». Roberto Lopes, direttore generale della Agco di Breganze, tra 250 e 300 milioni di fatturato quest’anno, elenca le ragioni per le quali la multinazionale Usa ha scelto l’Italia come piattaforma industriale per Europa e Asia: «La manodopera — circa 700 dipendenti — è qualificata e allenata a sfornare prodotti di alta qualità, che hanno pochissimi guasti e non necessitano di manutenzione proprio perché sono fatti bene. La logistica è ottima. E sul territorio esiste da decenni una rete di fornitori che lavorano per noi con grande, reciproca soddisfazione».
Meccanica, alimentare, farmaceutica, cantieristica. Il tessuto dell’industria italiana è tornato ad essere attrattivo anche per gli stranieri. Certo, siamo ancora lontani dai livelli precrisi, soprattutto in termini di posti di lavoro. Ma le aziende che sono sopravvissute e i distretti dove le maglie della rete di produttori e fornitori hanno tenuto meglio sono usciti dal decennio orribile con uno scheletro più solido e le energie per assecondare la ripresa degli ordini e delle esportazioni. In parecchi settori l’industria nazionale è più asciutta e scattante. E il mercato presenta occasioni davvero favorevoli per i fondi di private equity (si segnala una vera e propria caccia alle piccole e medie aziende manifatturiere da parte degli investitori finanziari, che ovviamente danno molte meno garanzie sotto il profilo strategico e occupazionale) e per le multinazionali che vogliono acquistare o, se già sono presenti sul territorio, allargarsi.
Movimenti che cominciano a essere intercettati anche dai centri di ricerca. Se infatti le statistiche dell’Ocse segnalano, anche per il 2017, una flessione dei flussi di investimenti diretti stranieri in Italia (da 22 a 17 miliardi di dollari), il Foreign direct investment confidence index di At Kearney registra un balzo in avanti dell’indice di attrattività dell’Italia per gli investitori stranieri: dal 16mo posto del 2016 al 13mo del 2017 al decimo previsto per il 2018, grazie soprattutto all’appetibilità del piano Industria 4.0 e dei suoi incentivi all’investimento in tecnologie al servizio della produzione. Nella top ten dei Paesi più attraenti, e non solo per il sole, il mare e le opere d’arte.