Lo Stato può essere incubatore di start up tecnologiche? Il governo giallo-verde ci crede molto. L’hanno chiamato «Fondo nazionale per l’innovazione» e Luigi Di Maio lo lancerà – non a caso – domani alle Officine grandi riparazioni di Torino, nella capitale della battaglia Cinque Stelle contro la Tav. Le intenzioni sono lodevoli, tenuto conto che in Italia la penetrazione del venture capital è bassissima. Fatta eccezione per pochi visionari la crescita delle imprese è ancora faccenda per banche. L’investimento privato nel capitale di rischio vale mezzo punto di Pil, sette volte meno che in Germania, un ventesimo della Gran Bretagna. I tassi di crescita dell’investimento in venture capital oscillano attorno al cinque per cento annuo, un terzo di quel che avviene nel resto d’Europa.
Il più noto soggetto italiano sta a Torino, si chiama Innogest, ha fatto più di 130 scommesse ma non è fra i primi cento dell’Unione europea. Le ragioni di un mercato così asfittico sono molte: scarsa propensione al rischio dei capitalisti italiani, scarsi incentivi fiscali, un mercato finanziario troppo piccolo, allergia alla concorrenza, l’eccessiva invadenza dello Stato imprenditore.
Ciò detto il veicolo dell’esperimento pubblico sarà Invitalia Ventures sgr – finora controllata da Invitalia – e che l’ultima legge di bilancio affida alla Cassa Depositi e Prestiti. Invitalia Ventures controlla due fondi chiusi con dotazioni modeste: 87 milioni il primo, 250 il secondo, nato appositamente per il sostegno delle imprese al Sud. L’intenzione dell’amministratore delegato di Cassa Fabrizio Palermo è di aumentare lentamente il capitale dei due fondi fino a un miliardo.
Decollerà? Palermo ne ha fatto un punto importante del piano industriale: «Porteremo il venture capital sul territorio, facendo leva su filiere industriali, università e incubatori». I dubbi non riguardano solo la capacità o meno di un’azienda a controllo pubblico di essere veicolo di innovazione. Fra i teorici della materia la questione è dibattuta: l’italo-inglese Mariana Mazzucato ha costruito la sua notorietà ribaltando la vulgata secondo la quale dobbiamo la rivoluzione tecnologica ai garage di Steve Jobs e Bill Gates. Ma una cosa è rendere merito alla ricerca militare (pubblica) per aver aperto la strada a internet e smartphone, altro è immaginare lo Stato padrino non casuale di scommesse innovative.
Cdp è sufficientemente autonoma dallo Stato, ma sempre di Stato si tratta, e il disegno del nuovo soggetto è già molto complesso. La manovra prevede che a Cassa passi circa il settanta per cento dei due fondi. Con direttiva del Ministero dello Sviluppo si stabiliscono «contenuti e termini della cessione, modalità di esercizio del diritto di opzione, criteri di governance per l’esercizio dei diritti di azionista sull’eventuale quota di minoranza». La direttiva – adottata ma non ancora resa pubblica – prevede che Invitalia faccia a Cdp una proposta irrevocabile di vendita entro trenta giorni dall’adozione della direttiva. «Italia Ventures 1» oggi può finanziare progetti fra cinquecentomila euro e cinque milioni.
Nel fondo, oltre allo Stato, ci sono Banca europea per gli investimenti, Cisco, Fondazione di Sardegna e gruppo Metec. Il Fondo ha in portafoglio le quote di una decina di imprese, da “Big Profiles” che ha sviluppato un algoritmo di business intelligence per monitorare i desideri dei consumatori a “Empatica”, un braccialetto che controlla i valori fisiologici agli epilettici. Sul sito di «Invitalia Ventures 2» non c’è invece traccia di investimenti. Non sono coinvolti altri investitori, e si promettono investimenti fra i cinque e i dieci milioni a impresa.