Passi per il centro di Londra dove il Pil pro capite è sei volte quello Ue, passi per Amburgo, Brema o Bruxelles, ma che tra le aree più ricche d’Europa ci sia pure Bratislava ma non Milano fa pensare. E così il cedimento del Sud. L’allarme più grave, però, è che quando Eurostat ha diffuso i dati, al governo erano così distratti dalle liti che forse non se sono manco accorti.
Pubblicato l’altra settimana con gli ultimi aggiornamenti sui dati disponibili del «Regional Gdp per capita», il dossier conferma cose in parte già note, tipo la forte crescita di vari paesi ex comunisti, ma con numeri per noi sempre più preoccupanti. Poi, certo, c’è chi dirà che anche i dati Eurostat vanno presi con le pinze e chissà che non siano stati usati parametri a noi ostili e bla bla bla. Fatto è che le tabelle dicono che tra le prime 21 aree Ue per Pil pro capite Milano e la sua area non ci sono. Con 38.000 euro pari al 128% della media europea, la Lombardia è nettamente staccata infatti non solo dalla irraggiungibile capitale britannica (626% del Pil pro capite comunitario!) ma anche dall’Ile-de-France, da cinque aree tedesche, da Vienna, da Salisburgo.
Più ancora spicca il ritardo di 50 punti e oltre, come dicevamo, da Bratislava e Praga. Quasi che, caduto il muro, dei quarant’anni di comunismo fosse rimasto solo un brutto ricordo. Travolto da una rimonta spettacolare che, dopo le difficoltà della separazione e degli anni Novanta, ha visto l’intera Slovacchia salire a una media del 76% e addirittura la Repubblica Ceca all’89% del punto di riferimento Ue. Con il sorpasso, nel caso di Praga, su tutto il nostro Mezzogiorno e sull’Umbria, con le Marche della Terza Italia ormai nel mirino.
Certo, l’Alto Adige svetta fino al 143% e il rapporto sul Pil europeo vede il Nord ancora saldo sopra la media continentale. Talvolta da posizioni di forza come il Veneto. Chi cerchi di inquadrare la situazione attuale nel contesto di quanto è accaduto nell’ultimo mezzo secolo a partire dal boom, tuttavia, deve prendere atto che l’intero Paese perde colpi rispetto a chi ha corso e continua a correre più di noi negli ultimi decenni. Tutto normale, per carità: chi ha più fame, più corre.
L’arretramento del Mezzogiorno, però, è drammatico. Basti dire che, stando a uno studio di Confindustria, la Sicilia nel 1951 faceva un ottavo del Pil italiano. Oggi, dopo decenni di investimenti nel Sud che per lo Svimez sarebbero ammontati dal 1951 al 2007 (poi poco o niente…) fino a un totale di 382 miliardi di euro (un quarto di quelli dati alla Germania Est, ma comunque tanti) la stessa Sicilia non arriva a un diciannovesimo.
Dice tutto un confronto, che peggiora di anno in anno, con la Yugozapaden, la regione bulgara intorno a Sofia. Nel 2000 il Pil pro capite era al 37% di quello europeo. Oggi, dice il dossier del 26 febbraio, è salito al 79%. Dando 20 punti di distacco alla Sicilia che al cambio del secolo stava davanti di 38 punti. E così più o meno a tutte le altre regioni meridionali (tolto l’Abruzzo) per non dire della Sardegna che prima stava sopra di 49 punti (all’86%) ed è oggi sotto di 10. E arranca dietro il Portogallo, Cipro, la Lituania, la Polonia…
È vero: non possono essere solo queste tabelle a dare la misura dello smottamento del Mezzogiorno. Ma certo ignorare rapporti Eurostat come questi o peggio ancora pensare ad altre faccende impiantandosi in infinite discussioni sulla quota 100 e il reddito di cittadinanza e la Torino-Lione e gli sfoghi di Giovanni Tria o le gaffe di Danilo Toninelli può essere letale. La questione meridionale, piaccia o non piaccia, resta un tema centrale che non può riemergere solo se viene rovesciato latte in strada.
Tanto più che quei dati sul Pil vanno letti assieme all’ultimo «Global Competitiveness Report 2018» del World Economic Forum. Rapporto che, tenendo conto di 114 parametri ancorati intorno a 12 pilastri (istituzioni, infrastrutture, contesto macroeconomico, istruzione e così via…) certifica alcune consolanti eccellenze italiane, ad esempio sulla capacità di innovazione (dove siamo ventiduesimi), le infrastrutture (ventunesimi), la dimensione del mercato (dodicesimi) o la salute (dove siamo sesti), ma ci vede nel ranking generale al 31° posto. Buono? Chi si contenta gode. Ma i paesi europei che ci stanno davanti, dall’Islanda alla Spagna, sono addirittura 16.
Su alcune cose che contano poi (eccome se contano!) siamo piuttosto indietro: al 56° gradino delle istituzioni in generale, al 67° per la « budget transparency», al 46° per la protezione della proprietà intellettuale, al 47° per l’efficienza dei servizi portuali, al 65° sulla regolazione del conflitto di interessi, al 79° per l’efficienza del mercato del lavoro, al 135° per la flessibilità nella determinazione del salario… E via così.
Resta l’attesa, adesso, per il prossimo «European Regional Competitiveness Index» della Commissione europea. Sempre classifiche competitività. Ma altri criteri, altri parametri, altri problemi. Lo fanno ogni tre anni, quello studio. Il primo, su dati 2010, vide la nostra regione di punta, la Lombardia, al 95° posto, il secondo su dati 2013 al 128° («Colpa del governo Monti!», strillò Roberto Maroni), il terzo su dati 2016 al 143°. Il prossimo monitoraggio sarà fatto sul 2019. C’è da temere.
L’ultimo ranking, dopo la Lombardia (piazzata così male anche a causa del funzionamento delle istituzioni: 223° gradino), vedeva la Liguria al 146° posto, il Piemonte al 152°, il Veneto addirittura al 169°. Più ancora, però, colpivano i dati del Mezzogiorno. Tutte le regioni, infatti, erano ben oltre il duecentesimo piazzamento: 226esima la Basilicata, 228esima la Campania, 228esima la Sardegna, 233esima la Puglia, 235esima la Calabria, 237esima la Sicilia. Ultime tra le ultime.
Sono passati 97 anni, eppure suonano sinistramente vicine a noi le parole usate da Gaetano Salvemini per accusare nel 1922 i governi italiani. I quali, per aver i voti del Sud, concessero pieni poteri «alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice d’impieghi e favori personali» .