Ascolta il tuo cuore, impresa. Anche questo sarebbe stato, imitando Alberto Savinio, un buon titolo per il libro di Antonio Calabrò. Perché L’impresa riformista non è un saggio di economia industriale. È il racconto dei sentimenti migliori delle aziende più evolute e innovative. L’Italia ne ha tante. A dispetto della peggior narrativa gialloverde. Le aziende non sono tutte concentrate solo sui propri bilanci. Avide di profitti. Nel revival dello Stato padrone si leggono tra le righe ansie protezionistiche e volontà punitive nei confronti dell’impresa privata. Un rigurgito dirigista. La concorrenza non piace, la grande dimensione inquieta. C’è un’Italia che si chiude e guarda indietro e, per fortuna, un Paese che lavora, innova, compete e vince. Ma chi lo rappresenta, oggi?
L’impresa riformista non è per niente fredda e cinica. Non è priva di umanità e compassione nell’affrontare la sfida digitale e l’era della robotica. È attenta al benessere dei propri dipendenti e delle loro comunità locali anche quando è globale, internazionalizzata. È capace di includere, di tessere la trama di una buona convivenza. Rispettosa delle buone regole. Anzi contribuisce a scriverle. Non è vero che goda, nella rappresentazione cupa e un po’ animalesca dei poteri forti, dell’assenza di limiti. Sa che la buona concorrenza è fatta di norme chiare, ma soprattutto di reputazione, di fiducia nei comportamenti reciproci. A maggior ragione quando opera in una società piena di paure e risentimenti. Papa Francesco, ricorda Calabrò, in una intervista a Guido Gentili su «Il Sole 24 Ore», ha parlato di «lavoro e genio creativo per un nuovo ordine economico». L’impresa riformista — che vuole essere sostenibile, investire nelle attività green, garantire trasparenza e tracciabilità nell’intera filiera produttiva, gestire al meglio i rifiuti delle lavorazioni — va esattamente nella direzione di un’economia civile. Riprendendo, in questo — avverte Calabrò — la lezione di un economista italiano del Settecento Antonio Genovesi.
La nuova civiltà del lavoro ha un disperato bisogno di ingegneri, tecnici, profili professionali, ma anche di filosofi, sociologi, psicologi. L’autore lo chiama l’algoritmo di Gramsci. Il dilemma fra le due culture, quella tecnico-scientifica e quella umanistica, non ha senso. Le competenze richieste in futuro saranno sempre più sofisticate, trasversali. Ma per capire in profondità il senso del cambiamento, e guidarlo, ci sarà bisogno dell’umanesimo industriale di cui scriveva Primo Levi. L’Italia premia poco donne e laureati. I talenti fuggono. Se vorrà tornare a crescere, migliorando una produttività spenta da decenni, dovrà far leva sulle sue aziende migliori, sulle filiere produttive più organizzate. Comprendere che l’era dell’innocenza digitale è terminata. E il cambio di paradigma, imposto all’economia dopo la crisi finanziaria, irreversibile. Un buon esempio è Milano, che è al centro — come spiega Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli e vicepresidente di Assolombarda — di un «sistema di relazioni che nella trasformazione digitale dell’economia, tra robotica, big data, e internet delle cose, tiene insieme servizi hi-tech, ricerca, formazione e cultura». Nell’economia della conoscenza il baricentro rimane l’industria manifatturiera. Il cuore resta antico.
Ma veniamo al nodo più delicato che il libro di Calabrò non elude. L’impresa riformista è anche un soggetto politico? Sì, lo è. Eccome. Ma non è un partito. Dario Di Vico lo ha definito, con sintesi suggestiva, il «partito del Pil», il Prodotto interno lordo, la misura della crescita. No, non scende in campo come fece nel secolo scorso un suo discusso Cavaliere. Non ambisce a suggerire soluzioni clientelari, elargendo favori e finanziamenti come era regola comune nella Prima Repubblica. Vorrebbe essere in sintonia con il manifesto dell’«Economist» per un liberalismo rinnovato, critico, che stimola nuove responsabilità. Se deve competere sui mercati globali, innovare, ha bisogno di ricerca e talenti, non di scorciatoie e favori.
Calabrò, intendiamoci, non nega difetti e furberie dell’imprenditoria italiana. Da giornalista economico ha per lunghi anni descritto la patologia di un sistema chiuso e gretto, attratto dai piccoli monopoli, affascinato (ancora oggi) dalla rendita. Aggrappato alle relazioni più che ai risultati. Ma nel suo viaggio nell’industria migliore, tecnologicamente avanzata, che coniuga passione e innovazione, si è accorto del potenziale civico dell’impresa riformista. Nel silenzio operoso di tante intese sul welfare aziendale è stata costruita una rete solidale che supplisce alle difficoltà e alle carenze dell’intervento pubblico. È una cura efficace del rancore. Una risposta a quel ceto medio (mai diventato borghesia come sostiene Giuseppe De Rita) che impoveritosi, e non solo in Italia, «odia il successo degli altri», scambia l’élite per un casta e crede che l’intera classe dirigente sia autoreferenziale. Non distingue, semplifica. Un messaggio di speranza per tutti perché l’impresa è il miglior ascensore sociale che esista. Premia la cittadinanza di chi lavora, studia, si sacrifica. Di chi ci prova. Non sta a casa ad aspettare che lo Stato si occupi della propria condizione. Non vuole alibi alla pigrizia.
La dialettica popolo-eurocrati, sostiene Calabrò, è semplicemente falsa. Ma per smascherarla, per combattere i troppi luoghi comuni contemporanei, soprattutto nell’economia, è necessaria un’informazione responsabile. Un serio contrasto alla corruzione del linguaggio pubblico. «Quanto silenzio complice può tollerare una democrazia senza pervertirsi?» Calabrò sposa l’analisi del filosofo Remo Bodei. Siamo in bilico tra verità e menzogna. Forse non più in grado di riconoscere la prima perché troppo dipendenti dalla seconda. «Sulla Rete qualcuno ha ripescato una parola usata da Benedetto Croce per il regime fascista: onagrocrazia, ovvero il governo dei ciuchi selvaggi, temperato dalla corruzione». Ernesto Auci, ex direttore del «Sole» ed editore di Firstonline, vi ha aggiunto l’arroganza. L’impresa riformista ha bisogno solo di tante persone di buon senso. E di un po’ di coraggio in più nel guardare senza illusioni al futuro del Paese.
*Corriere della Sera, 20 febbraio 2019