Nel periodo tra le due grandi crisi, quella del 2008-2012 e quella del 2020, sono state le imprese Champions la vera locomotiva della ripresa del Paese. Lo testimonia il fatto che, come dimostra anche l’edizione 2021 del report L’Economia-ItalyPost, la loro crescita media annua continua a viaggiare intorno al 10%. Un tasso ben superiore a quello asfittico della nostra economia e che qui, tra i Champions, ha invece consentito il raddoppia delle dimensioni aziendali nel giro di pochi esercizi. Insomma, a riportare l’Italia a galla è stato il capitalismo anarchico della piccola e media impresa che, dal Veneto alla Lombardia e dall’Emilia alla Toscana, ha visto alcune migliaia di imprenditori cercare individualmente percorsi originali di sviluppo e di internazionalizzazione.
Quattro i principali fattori di questo sviluppo: la riscoperta del made in Italy, ovvero del prodotto realizzato con quella cura «artigianale» tipica della nostra manifattura; la vocazione preponderante all’export ( 585 miliardi di euro nel 2019: il 31,7% del Pil, dal 24,9% del 2010); l’accelerazione sui processi di digitalizzazione e di organizzazione dei processi produttivi, che ha permesso di cogliere appieno la rivoluzione del 4.0 avviata dall’allora ministro Carlo Calenda; la maniacale attenzione alle risorse umane e ai processi legati alla formazione.
Nel triangolo industriale
È evidente come, nel contesto di un sistema Paese che per lunghi periodi si è occupato di tutto tranne che di sostenere il contesto produttivo, a contare sia stata soprattutto la determinazione «a muoversi» dei singoli imprenditori. Senza di loro dopo il 2008 il destino dell’Italia sarebbe stato segnato da un’unica parola: deindustrializzazione.
All’interno di questo stesso contesto, peraltro, appare sempre più evidente un fenomeno già intravvisto negli ultimi anni:il Pil ha nuove geografie, ben evidenziate da alcuni elementi di differenziazione territoriale nel percorso di crescita dei Champions. In particolare, si allarga il differenziale tra Lombardia. Emilia- Romagna e Veneto, ossia quello che Dario Di Vico ha ribattezzato «nuovo triangolo industriale». L’analisi Champions 2021 conferma, per esempio, la maggior dimensione e le migliori performance delle imprese emiliano-romagnole rispetto sia alle lombarde, sia alle venete. Nel dettaglio: le 139 aziende Champions emiliane hanno prodotto un fatturato complessivo di oltre 15 miliardi nel 2019, pari a una media di110,279 milioni, cioè parecchio al di sopra dei 92,528 milioni medi delle 323 imprese della Lombardia (che pure rimane prima in Italia per numero di imprese Top) e quasi il doppio dei 67,196 milioni di media delle 192 imprese venete. Non solo. Tra il 2013 e il 2019, i «Campioni» dell’Emilia-Romagna sono cresciuti a un ritmo medio annuo del 14,46%: oltre due punti in più rispetto ai dati di Lombardia (12,30%) e Veneto (12,25%).
Insomma: l’Emilia-Romagna corre, e da tempo, molto più di Lombardia e Veneto. Secondo Franco Mosconi, il massimo esperto del sistema emiliano, le ragioni vanno cercate in un contesto per molti aspetti originale. Grazie a una regia regionale oggettivamente autorevole e sulla base di politiche impostate dall’allora assessore regionale Patrizio Bianchi, l’Emilia Romagna è riuscita a fare due cose che gli altri due lati del nuovo triangolo industriale non hanno saputo sviluppare: da un lato una politica di attrazione di multinazionali e investimenti (Philippe Morris e joint venture si no–americana sulle supercar elettriche in primis); dall’altro la costruzioni di vocazioni territoriali (il Food a Parma, la MotorValley a Modena, i Big Data a Bologna), con poli di formazione infra universitari capaci di far collaborare i diversi Atenei su progetti comuni.
Il modello
C’è poi un terzo fattore: l’atteggiamento delle imprese, che hanno scelto di investire somme importanti in progetti comuni (dal Muner al Food Project di Parma) utili al territorio. Non l’hanno fatto solo alcune «grandi» come Barilla, Ducati, Maserati o Chiesi, ma un esercito di «piccole», come Dallara o Davines, che hanno capito come rendere attrattivo il territorio sia contemporaneamente un bene sociale e un bene per la stessa impresa. Esemplare, in questo senso, l’esperienza di «Parma io ci sto!». È un caso, la maggior crescita delle imprese di questo contesto? È un caso che la dimensione media della aziende sia superiore? E ancora: è un caso che, nell’Italia degli ultimi sei anni, siano alcune province della stessa regione (Parma, Modena, Bologna e Rimini)le uniche in cui la popolazione è aumentata? Vedremo con i dati 2020 se il modello avrà retto anche alla bufera Covid, ma i primi riscontri (per esempio sull’export), suggeriscono che no, non è un caso.
Che il mix tra spinta individuale degli imprenditori e costruzione di condizioni sistemiche a livello territoriale possa essere una leva fondamentale di crescita peri prossimi anni, è in ogni caso una chiave di lettura che chiama in causa tutti e tre i principali soggetti in campo: le imprese, la politica, il mondo della formazione. Spetta forse a loro, prima ancora che al governo nazionale, assumersi la responsabilità comune di disegnare i nuovi percorsi di crescita del prossimo decennio.