Un mondo così indebitato non si era mai visto. Si aggira attorno ai 250 mila miliardi di dollari l’esposizione complessiva del Pianeta, ovvero tre volte tanto i livelli di venti anni fa. A rivelarlo è uno studio di Citigroup realizzato sulla base dei dati raccolti dall’Institute of International Finance, che contestualmente alle criticità del comparto azionario, mette in luce un’altra possibile fonte di rischio legata all’universo obbligazionario. Sui principali debitori, Stati Uniti, Cina, Eurozona e Giappone, gravano oltre i due terzi del totale dell’indebitamento delle famiglie, tre quarti di quello delle imprese e l’80% del debito pubblico globale. Nell’area a moneta unica l’Italia è tra i Paesi con la più elevata esposizione, sebbene l’aumento maggiore del rapporto debito/pil dal 2007 ad oggi sia della Francia, mentre, a livello globale, i rimbalzi maggiori sono stati messi a segno da Regno Unito, Stati Uniti e Giappone.
Ben inteso, ad ogni debitore corrisponde un creditore per il quale il prestito erogato rappresenta un’attività finanziaria in grado di creare valore. Ma quando il carico complessivo del debito assume dimensioni così elevate pone dei rischi rilevanti per il sistema economico, in primis quello dell’insolvenza ovvero dell’incapacità di far fronte all’impegno che è stato assunto. In particolare perché il Pianeta intero si appresta ad essere sottoposto a un test assai delicato, ovvero il cambiamento del corso delle politiche monetarie da parte delle banche centrali via via più orientate ad aumenti dei tassi di interesse dopo un lungo periodo di politiche accomodanti con bassi costi del denaro. A partire dalla Federal Reserve che, dopo i quattro rialzi del 2018, sembra orientata a ritoccare il costo del denaro altre due volte, a meno di repentine inversioni di tendenza dei dati macroeconomici o di perduranti ribassi delle Borse.
«Siamo entrati in una nuova era» che sortirà evidenti effetti nel 2019,spiega al Wall Street Journal Emre Tiftik, vice direttore dell’Institute of International Finance. «I livelli di debito allo stato attuale – prosegue – sono i primi segnali di allarme di surriscaldamento di specifici settori e Paesi». Un insegnamento al riguardo arriva proprio dalla grande crisi del 2007-2008 che ha causato una drammatico prosciugamento della liquidità e, non a caso, è stata definita «credit crunch», ovvero contrazione del credito. Nonostante ciò la corsa all’indebitamento è proseguita per finanziarie investimenti e stimolare la crescita fino a creare un eccesso di debito con tutti i rischi ad esso legati.
Tra i principali elementi di preoccupazione di investitori ed economisti c’è quello dell’impiego non efficiente del debito accumulato. Il timore è ad esempio che le aziende abbiano fatto leverage «per procedere a buyback azionari al fine di rafforzare il valore delle azioni – avverte il Wsj -, o che i consumatori abbiano utilizzato il credito per acquistare beni voluttuari». O che i governi non abbiano avviato adeguate politiche di crescita, senza la quali l’abbattimento dell’esposizione diventa impossibile. Il secondo elemento di preoccupazione riguarda il ricorso a strumenti di indebitamento non del tutto «collaudati», frutto della finanza creativa. È il caso di alcune forme di debito a cui hanno fatto ricorso le imprese cinesi, prestiti «esotici» in valuta straniera da parte di Paesi emergenti e i cosiddetti crediti «pop» (legati alle carte) diffusi tra le famiglie americane. C’è infine un ultimo fattore di rischio, il deterioramento del debito: nel 2018 per la prima volta in assoluto nella storia, dei quasi 8 mila miliardi di obbligazioni delle aziende Usa quelle con giudizio pari BBB, appena un gradino sopra al rating delle aziende per le quali è consigliato non investire, ha toccato quota 40%. A rivelarlo è Interactive Data Corporation secondo in Europa la percentuale è anche maggiore.