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In un Paese afflitto fino a tre anni fa da una disoccupazione record, in particolar modo giovanile, sembrava impensabile che nel giro di pochi mesi la situazione volgesse in senso opposto. Un problema fortemente sentito in Germania1 ma ancora molto sottovalutato in Italia, forse anche perché, dalla nostra ricognizione, appare oggi particolarmente acuto in alcune aree e in altre meno, così come più pertinente ad alcune figure professionali che ad altre.
Ma è evidente che, se la ripresa continuerà, il problema a breve potrebbe divenire generalizzato, almeno per quelle imprese che non possono usare come leva competitiva sul mercato del lavoro unbrand fortemente attrattivo e collegamenti in grado di permettere spostamenti rapidi tra la propria residenza e la sede dell’azienda. La logica della ricerca del personale «con il compasso», che permette di trovare lavoratori a massimo 40 minuti di distanza dalla propria sede, se per un’azienda di Bologna, grazie all’alta velocità, permette di cercare fino Milano, per un’azienda padovana di Borgoricco implica che il raggio di reclutamento diventi al massimo di 30 chilometri.
Il problema della vicinanza ai grandi nodi della vita urbana per poter avere delle chance di intercettare le figure più qualificate si pone già oggi in maniera netta per le industrie collocate in aree montane o marginali rispetto ai grandi centri urbani.
Comelit, che è insediata in una vallata bergamasca, ci ha testimoniato che per sopperire a questo problema ha dovuto aprire vicino alla città uno dei suoi centri di ricerca.
Unox ci ha raccontato che uno dei due principali motivi per cui ha rinunciato ad acquisire una società nel bellunese è perché ha valutato come critica la possibilità di farla crescere in modo significativo dopo l’eventuale acquisizione per la difficoltà nel reperire o portare in loco risorse umane.
Sempre nel bellunese, poi, gli imprenditori locali raccontano come sia divenuto un miraggio trovare lavoratori di qualsiasi fascia. «I pochi che ci sono vanno tutti in Luxottica, attratti da pacchetti di welfare aziendale da capogiro», ci riferiscono gli imprenditori della zona.
La grande novità del dopo crisi è che, soprattutto per queste aziende champion, trovare lavoratori è diventato uno dei principali problemi. Parliamo ovviamente di aziende concentrate prevalentemente al Nord, dove la ripresa si sta facendo sentire con una forza assai maggiore rispetto a un Sud dove – turismo, agroalimentare e pochissimi altri settori a parte – grandi segni di ripresa non sembrano manifestarsi.
Nei mesi scorsi si sono moltiplicati gli appelli e gli allarmi. E, contrariamente a quanto spesso si sostiene, e cioè che a mancare sarebbero soltanto lavoratori qualificati, si nota che anche nelle fasce «basse» si sta creando un serio problema di reperimento di forza lavoro. Per essere più precisi, la denuncia di carenza di manodopera si polarizza su due segmenti estremi del mercato del lavoro. Mancano lavoratori per quegli impieghi per cui viene richiesta maggiore flessibilità di turni e orari (camionisti, cassieri nei supermercati, commessi, camerieri) e mancano soprattutto nell’area del lavoro qualificato (ingegneri, informatici, tecnici specializzati).
Se per i lavori meno qualificati il problema pare facilmente risolvibileattingendo alle nuove ondate di immigrazione dai Paesi in via di sviluppo, il problema è assai più serio invece nelle imprese champion e più diffusamente in tutte le imprese che stanno intercettando la ripresa. Perché non solo è difficile trovare manodopera, ma è quasi impossibile se la si cerca con competenze adeguate rispetto all’avanzamento dei processi tecnologici e del 4.0. Secondo uno studio realizzato da Confindustria e Unioncamere, sarebbero 272.000 i posti messi a disposizione delle aziende nei prossimi cinque anni, di cui il 60 per cento destinato a periti e laureati tecnico-scientifici nei soli settori chiave della meccanica, della chimica, del tessile, dell’alimentare e dell’ICT2.
Il problema è tutt’altro che banale e dovrebbe forse essere messo in cima alla lista delle grandi questioni che il Paese deve affrontareprima che sia troppo tardi. Ciò che infatti deve allarmare è il fatto che queste imprese rischiano di pregiudicare la propria crescita per incapacità di trovare risorse umane sufficienti a coprire le commesse. Il pericolo è cioè quello di perdere punti di Pil preziosissimi in una fase nella quale, anziché crescere dell’1,4 per cento l’anno, dovremmo cercare di arrivare almeno al 2,5 per cento – sia per abbassare il rapporto Pil/debito pubblico, sia per recuperare il distacco dagli altri Paesi dell’Eurozona in termini di crescita.
Le cronache raccontano che Paolo Menuzzo, Presidente di Came, una società che non rientra tra i 500 champions perché ha dimensioni superiori ai 120 milioni di euro di fatturato, di recente abbia affermato che l’azienda rischia di perdere ordinativi perché non trova sufficiente forza lavoro qualificata3. E quello di Came non sarebbe un caso isolato.
Altre aziende delle stesse dimensioni, come Friul Intagli, hanno lanciato analoghi allarmi dalla provincia di Pordenone. Le aziende da noi interpellate denunciano – mediamente – difficoltà a reperire dieciquindici figure tecniche. Numeri di per sé limitati, che spiegano anche come il fenomeno sfugga al momento ai radar degli osservatori. Così come non aiuta a cogliere appieno queste difficoltà il fatto che il problema sia maggiormente diffuso tra le aziende unbranded, piuttosto che in quelle medio-grandi, le quali, grazie alla loro notorietà, ricevono un maggior numero di curriculum qualificati. «Ma perfino per noi – ci dice un responsabile delle risorse umane di un importante brand globale della meccanica – per alcuni stabilimenti in aree marginali, il problema è diventato molto serio, e la casa madre tedesca investe alcune centinaia di migliaia di euro all’anno per organizzare eventi allo scopo di attrarre giovani.»
Come stanno affrontando e risolvendo il problema le aziende champion? In questo momento, per la totale assenza di soluzioni sistemiche, l’atteggiamento prevalente è quello di arrangiarsi. «Stiamo allungando al 2019 gli ordini – ci racconta Giovanni Ferrari di Brevetti CEA – e il problema che abbiamo è che quest’anno non sappiamo se saremo in grado di crescere di fatturato perché non abbiamo personale sufficiente a produrre un maggior numero di macchinari.» «È ricominciata la guerra tra le aziende a rubarsi tecnici», ci racconta il Presidente degli Industriali di Vicenza Luciano Vescovi, confermandoci la preoccupazione rilevata tra molti imprenditori di perdere giovani fatti crescere con cura.
«Non fanno in tempo a cominciare i corsi agli Istituti Tecnici Superiori (ITS) che già se li vengono a prendere allettandoli con lauti stipendi», ci raccontano i responsabili di questi istituti di ogni parte d’Italia. A mancare, dunque, non sono solo laureati in ingegneria e in informatica, ma ancora e soprattutto tecnici che escono dalla scuola secondaria superiore.
«Siamo di fronte a una grave emergenza formativa» ha dichiarato Giovanni Brugnoli, Vicepresidente di Confindustria per il Capitale Umano4. Del resto sono anni che gli istituti tecnici perdono iscritti. Nell’indirizzo meccanico, solo per fare un esempio, nell’ultimo triennio di corsi siedono in classe poco più di 30.000 ragazzi. Di questi – stima la ricerca di Confindustria – circa la metà andrà all’università, contro un fabbisogno stimato dalle aziende meccaniche di 40.000 posizioni lavorative.
È evidente quindi che, per supplire alla carenza che già oggi si manifesta, vanno rafforzati tutti i sistemi formativi, dagli istituti tecnici alle università, anche attraverso una mobilitazione che torni a valorizzare la cultura politecnica, penalizzata in questi anni da mode tese a creare falsi miti come, per citare un caso, quello relativo ai corsi di giornalismo, professione tipicamente in declino e che comunque si impara in gran parte sul campo.
«Stiamo lavorando attivamente per fare in modo di recuperare quei giovani che abbandonano i corsi di laurea in Ingegneria al secondo o terzo anno» ci racconta Fabrizio Dughiero, Prorettore al Trasferimento Tecnologico dell’Università di Padova. Importanti gruppi bancari hanno contribuito ad attivare e sostenere progetti come quello lanciato dalla Fondazione Nord Est sotto la direzione di Stefano Micelli per la valorizzazione della formazione tecnica.
Nel contempo molte imprese stanno contribuendo attivamente e direttamente. Perché non pensare allora – ci dice Giorgio Spanevello, Direttore Generale della Fondazione ITS Meccatronico Veneto – a «pool» di aziende che stabilmente possano formare assieme alla scuola tecnici specializzati con corsi specifici, svolti per una buona parte in azienda, per garantirsi una «panchina lunga» e comunque dare ai giovani la certezza di un impiego qualificato5?
Lo strumento esiste già e, seppur con numeri ridotti, sta dando risultati eccellenti. I già citati ITS hanno una struttura snella e flessibile, sono gestiti da fondazioni a partecipazione mista pubblico-privata, ma soprattutto delineano la propria proposta formativa su indicazioni specifiche del sistema produttivo. Se si aggiunge che il loro campo di azione può estendersi alla formazione continua, gli ITS potrebbero realmente costituire un grande passo avanti nella direzione dello sviluppo produttivo di un territorio.
Ma, al di là di ciò che si può e si deve assolutamente fare in quella direzione, c’è un fattore da cui non si può prescindere: la demografia. La fase di ripresa non è gestibile senza nuove risorse umane specializzate provenienti da altri Paesi. Un problema particolarmente complicato per le aziende champion, che, essendo di dimensioni ridotte, non hanno singolarmente forza sufficiente per affrontare un problema di tale portata.
Per le grandi imprese è infatti relativamente semplice dar vita a soluzioni ad hoc gestendole in proprio, come ha fatto per esempio la Danieli di Udine (che pure investe moltissimo anche negli ITS), che è andata a cercare 150 ingegneri nei Balcani. Ben più difficile è invece intervenire per aziende che hanno bisogno di un numero limitato di figure di questo tipo – anche se, in qualche caso ancora sporadico, con formule inconsuete, qualcuno dei nostri champions ha già cominciato a farlo.
Almeno per i settori tecnologici che consentono di lavorare a distanza, al momento abbiamo insediato, in Paesi ex coloniali, dove esiste una formazione tecnica di alto livello, delle microaziende composte da giovani ingegneri che lavorano direttamente in linea con i nostri nello sviluppo dei prodotti – ci racconta un imprenditore. – Certo, non facciamo importazione dei cervelli in maniera diretta, ma in qualche modo il problema della carenza di ingegneri dovevamo risolverlo. Non possiamo bloccare il nostro sviluppo e la tecnologia in questo ci ha aiutato.
Difficile immaginare che per tutte le figure tecniche la questione possa essere affrontata con modalità altrettanto ingegnose. Un’ondata migratoria qualificata diventerà a breve indispensabile per non interrompere lo sviluppo di queste imprese e bisogna anzi già ora organizzarla: e se la crescita continua ai ritmi attuali, nel giro di qualche mese, non di qualche anno. Il modello a cui ci si potrebbe forse ispirare è quello delle multinazionali tedesche che, tramite società specializzate, vanno alla ricerca di informatici in India e di ingegneri nei Paesi dell’ex Unione Sovietica, in Tunisia o in Algeria. Se queste multinazionali possono farlo secondo una logica di grandi numeri, per le PMI italiane servono aggregatori che facciano da intermediari tra la domanda espressa dalle piccole aziende e l’offerta sparsa nei quattro angoli del pianeta.
L’altro problema che ci pare non sia ancora chiaro a molti è che senza un’articolata iniziativa capace di risolvere il nodo dei lavoratori specializzati, il rischio per queste imprese è quello di non essere in grado di rimanere nelle filiere di fornitura dei grandi gruppi industriali multinazionali. I quali, come è evidente, se non troveranno risposte dai nostri champions, andranno a cercare fornitori altrove, con il risultato non solo di porre un limite alla crescita del nostro Paese, ma anche di spostare pian piano le reti di fornitura in aree maggiormente capaci di rispondere alle loro necessità produttive.
Note:
1 Il Sole 24 Ore in un articolo del 12 gennaio 2018 parla di 1 milione di posti vacanti in Germania e riferisce di uno studio dell’Istituto di Ricerca Prognos che prevede un potenziale, da qui al 2030, di 3 milioni di posti vacanti. Un gap difficilmente colmabile che creerebbe potenzialmente «un effetto frenante per l’innovazione e la crescita». La soluzione prospettata da parte del Direttore Federale dell’Agenzia per il Lavoro, riferisce il quotidiano di Confindustria, è «varare una legge d’immigrazione che consenta di reclutare in maniera mirata e agevole forza lavoro straniera specializzata»: Gloria Remenyi, «Oltre 1 milione di posti di lavoro vacanti in Germania: un record che è un problema», Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2018.
2 Lo studio è stato presentato alla 27a edizione di Job Orienta nel dicembre 2017.
3 «Rinunciamo a progetti perché non abbiamo personale», OggiTreviso.it, 14 novembre 2017.
4 Claudio Tucci, «A caccia di 272mila lavoratori: due su tre tecnici e laureati», Scuola24, 30 novembre 2017.
5 Giorgio Spanevello, «Perché le industrie non trovano tecnici», VeneziePost, 9 febbraio 2018.
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