Di rado disposto a risolvere un problema se può rinviarlo per un altro giorno, il governo italiano non ce l’ha fatta. Neanche stavolta. Non ancora: la trattativa con Bruxelles sulla legge di Bilancio resta aperta anche se ormai siamo quasi oltre il tempo massimo; anche se la Commissione Ue potrebbe ancora decidere l’innesco di una procedura sui conti dell’Italia già domani. Il governo però non ce l’ha fatta a produrre una proposta che risolva lo stallo, neanche se perdere altre quarantotto ore a questo punto significa, tra l’altro, rischiare l’esercizio provvisorio di bilancio dal primo gennaio. Oggi c’è un Paese del Gruppo delle sette democrazie più industrializzate del pianeta che, giunto quasi a Natale, non sa ancora da quale legge di Bilancio sarà governato quando rientra dalle vacanze.
La causa prossima dell’incertezza è nel contenuto della lettera che il ministero dell’Economia e Palazzo Chigi hanno mandato a Bruxelles fra la serata di domenica e ieri mattina. In teoria doveva indicare le misure con le quali il governo si impegna (almeno) a non far salire l’anno prossimo il cosiddetto disavanzo «strutturale». Quest’ultima è la misura attorno alla quale ruota la discussione fra Roma e Bruxelles: si tratta del saldo di bilancio al netto di spese eccezionali come quelle per il dissesto idrogeologico, i ponti che crollano, o al netto anche di misure che durano un anno solo e dei flussi e riflussi del ciclo economico, che alterano provvisoriamente le entrate fiscali e le uscite dello Stato. Quel saldo è impossibile da misurare con certezza, ma è ciò che conta in Europa per evitare che un Paese in difficoltà debba stringere troppo la cinghia.
Dunque l’obiettivo di deficit «nominale» al 2,04% del prodotto lordo, che il governo difende come un nuovo totem, sulla carta sarebbe irrilevante. Per evitare una procedura sui conti, all’Italia la Commissione Ue chiede solo di non peggiorare o di ridurre di pochissimo il deficit «strutturale». Ma è qui che l’accordo non c’è: l’ultima proposta inviata dal governo a Bruxelles contiene troppe entrate che incidono per un solo anno, da quelle per le vendite di immobili pubblici alla «eco-tassa» sulle auto di grossa taglia. Invece la Commissione Ue chiede fra 2,5 e tre miliardi di misure «strutturali» e non solo temporanee in più (pari allo 0,15% o 0,20% del prodotto lordo).
Sembrerebbe un diaframma minimo. Ma è ciò che ieri, per l’ennesima volta, ha impedito di chiudere con un accordo fra il governo e la Commissione. Dietro le parole di circostanza sul dialogo che «continua», la frustrazione a Bruxelles ieri era evidente. «Siamo in un angolo dal quale è difficile uscire – diceva ieri sera un funzionario europeo –. Quando le parti lavorano per due settimane, si avvicinano ma non riescono a convergere, ciò lascia presagire cose non buone».
Fino alle 20.30 di ieri si sono riuniti i capi degli staff dei commissari Ue e non hanno messo in agenda l’avvio di una procedura contro l’Italia alla riunione dell’esecutivo di domani, come previsto in origine. Ma oggi stesso se ne riparlerà. Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione, si riserva l’autorità di rimettere la delibera in agenda già domani (poi per congelarla se è possibile negoziare un altro giorno o due). Di certo nella Commissione c’è fastidio per il sospetto che dall’Italia si voglia forzare la mano, approfittando delle difficoltà in Europa legate alla Brexit e del deficit in più (al 3,2% del prodotto lordo) che il governo di Parigi prevede per rispondere alla protesta dei gilets jaunes.
Giovanni Tria, il ministro dell’Economia, ieri sera ha annullato un incontro pubblico con Bruno Vespa in serata per andare a Palazzo Chigi a limare ancora la manovra. Prima aveva spiegato ancora una volta al telefono al vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis i suoi vincoli: i vicepremier Matteo Salvini e soprattutto Luigi Di Maio resistono all’idea di trovare altri 2,5 o 3 miliardi per non far scendere il deficit «nominale» sotto quel simbolico 2,04%. Enzo Moavero, ministro degli Esteri ed ex alto funzionario della Commissione, ha già incontrato Juncker almeno sei volte per fare da ponte. Ma Di Maio e Salvini non vogliono neanche spostare altre voci dalla spesa per reddito di cittadinanza o pensioni verso investimenti che non rientrerebbero nel deficit «strutturale».
Di qui lo stallo che continua, pericolosamente, su questioni quasi solo di forma. Un tentativo di via d’uscita è nell’apertura del governo a ridurre la sua previsione di crescita per il 2019 dall’1,5% all’1%: per ragioni tecniche, ciò farebbe scendere anche il deficit «strutturale». Più rilevante è però che il governo prometta di contenere deficit e debito nel 2020 con un maxi-aumento di Iva e accise da 20 miliardi di euro. Ha l’aria di un piano scritto sull’acqua: a Bruxelles o a Roma, nessuno crede che Cinque Stelle e Lega siano disposti a imporre sacrificio del genere agli italiani dopo aver promesso per mesi l’esatto opposto. Quelle clausole sulle imposte indirette sono un artificio contabile per fingere di credere che fra un anno i conti tornino: un’ipoteca pesante come un macigno sul percorso del governo l’autunno prossimo.