Cosa significhi procedere con il pilota automatico lo si capisce facilmente da Alitalia. In questo caso però la sedia di guida vuota non riguarda qualche aereo in particolare, ma tutti gli oltre 120 della flotta. E il pilota assopito non si trova alla cloche, ma nei palazzi sospesi della politica. Prima delle elezioni, il governo di Paolo Gentiloni (ora dimissionario) aveva fissato al 30 aprile prossimo un termine per decidere sulla vendita di Alitalia, quasi inevitabilmente a una compagnia estera. Malgrado le smentite, in lizza sembravano essere in tre: la tedesca Lufthansa, la low cost ungherese Wizz Air e una cordata fra Air France, EasyJet e il fondo americano Cerberus. Invece il termine è passato e non si muove foglia.
Il perché lo spiega all’Economia Carlo Calenda, il ministro uscente dello Sviluppo: «Per Alitalia una soluzione può venire dalla vendita a un’azienda che già opera sul mercato — dice Calenda —. Ma nessuna si farà avanti fino a quando non c’è un governo nella pienezza dei poteri». Secondo il ministro, l’unico modo per convincere potenziali compratori ad accelerare i tempi è che tutti i principali partiti, inclusi M5S e la Lega, diano al governo attuale un mandato esplicito ad andare avanti con la vendita. «Allora sarei in grado di riprendere il negoziato con gli investitori», dice Calenda. Invece M5S e Lega prima delle elezioni avevano promesso di rinazionalizzare l’ex compagnia di bandiera. Dunque chi potrebbe comprarla si tiene alla larga, non sapendo cosa lo aspetta. E Alitalia, come ha scritto di recente sul «Corriere» Leonard Berberi, prosegue la sua agonia: una quota di ormai al 2% del mercato europeo e altri 800 mila passeggeri persi solo nel 2018.
Benvenuti nel mondo sospeso del vuoto di potere. Il premier dimissionario Paolo Gentiloni e i suoi fanno il possibile, ma non hanno maggioranza in parlamento. Ed è vero che l’Italia almeno in questo non è un’anomalia assoluta: sette anni fa il Belgio andò avanti per oltre un anno senza governo e senza gravi conseguenze, malgrado la crisi del debito che imperversava in area euro; due anni fa qualcosa di simile successe alla Spagna, che crebbe del 3% circa; la ripresa olandese l’anno scorso non è stata disturbata da sei mesi di trattative post-elettorali; e la stessa Germania ha raggiunto il record di occupazione durante sei mesi senza governo, conclusi questa primavera.
Gruppi di StatoMa davvero l’Italia è paragonabile a loro? Un’occhiata ai dossier aperti induce a dubitarne. Non ci sono solo i rinnovi di aziende o gruppi controllati dallo Stato, come la Rai o Cassa depositi e prestiti (ne scrive Alessandra Puato qui a fianco). Né solo quelli ai vertici di regolatori come l’Antitrust (in autunno) o l’Autorità per l’Energia (già scaduta). Si stanno accumulando soprattutto partite strategiche legate al rapporto dell’Italia con l’Unione europea.
Per esempio la settimana scorsa Pierre Moscovici, il commissario Ue agli Affari monetari, ha ricordato che nel 2018 l’Italia non compirà alcuna riduzione «strutturale» del deficit (cioè al netto degli effetti ciclici e delle misure una tantum). Poiché la correzione dovrebbe invece essere dello 0,3% del Pil, circa 5 miliardi, è possibile che la Commissione Ue chieda una manovra correttiva già a fine mese o non appena si formerà un governo. Del resto, il commento che si raccoglie in molti uffici di Bruxelles è sempre lo stesso: «Ci aspettiamo che l’Italia mantenga tutti gli impegni». Tra questi non ci sono solo l’ulteriore riduzione del deficit dall’1,7% del Pil del 2018 allo 0,9% nel 2019 (una correzione da almeno 12 miliardi).
Europa e bancheCi sono anche partite diverse. Il ministero dell’Ambiente dovrebbe per esempio inviare alla Commissione Ue il Piano energia-clima, parte della Strategia energetica nazionale. Può suonare come un passo burocratico, invece è uno snodo importante della politica industriale italiana sul mix di approvvigionamenti e sulle scelte di sostenibilità ambientale.
Ancora nella seconda metà di aprile si sono riuniti per parlarne il capo-gabinetto all’Ambiente Raffaele Tiscar con i capo-fila del settore in Italia. Ma fra questi c’è il Gestore dei servizi energetici, una società pubblica che distribuisce incentivi alle rinnovabili per circa 15 miliardi l’anno: il problema è che i suoi vertici scadono a giugno e non si sa chi potrà rinnovarli.
Inutile dire poi che il vuoto di potere a Roma indebolisce l’Italia in una serie di grandi negoziati europei che oggi sono entrati nel vivo in Europa: quello sulle risposte da dare alle minacce di dazi dell’amministrazione americana; sugli accordi di Dublino relativo ai rifugiati; su un bilancio europeo da 1.200 miliardi fra il 2020 e il 2027; e sul modello di governo dell’area euro, con il corollario assai desiderabile di un’assicurazione europea sui depositi. Questo sono tutte grandi partite vitali, giocate per ora in assenza dell’Italia.
Ma a volte il diavolo si nasconde nei dettagli. Prendiamo per esempio il cosiddetto Mrel, l’obbligo per le banche italiane e quelle di tutta l’Unione bancaria dell’area euro di costituire un «cuscinetto» di bond in gran parte subordinati e soggetti al bail-in caso di dissesto dell’istituto. Le soglie di Mrel si stanno negoziando adesso (senza governo di Roma) e per le banche italiane possono comportare nuove emissioni spesso a costi elevati per 30-60 miliardi, secondo la Banca d’Italia. Il rischio di una stretta alla disponibilità di credito a famiglie e imprese è reale. Ma la politica pensa ad altro, mentre alla cloche del potere non siede ancora nessuno.