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«Mio padre era a capo di un’azienda di mobili che si occupava di contract per alberghi in tutto il mondo. Mia madre si occupava della famiglia lavorando part time nel design e nella moda». La mamma aveva frequentato l’Accademia delle Belle Arti a Venezia e fin da piccole portava le figlie a visitare le Biennali di Arte e Architettura di Venezia, la Guggenheim Collection, le Gallerie dell’Accademia, le chiese veneziane, le opere di Palladio. «Ci raccontava le storie delle vite degli artisti, anche gli aneddoti più personali, facendo sembrare semplici anche i concetti più complessi. Nei fine settimana visitavamo le città d’arte italiane». Maria Alessandra Segantini, 52 anni, è un’architetta veneta che condivide lo studio con il marito Carlo Cappai.Primogenita di due sorelle, nata a Treviso, studio e gavetta a Venezia, poi una base a Londra.
Segantini ha frequentato le scuole cattoliche private: le suore Canossiane e il liceo scientifico del Collegio Vescovile Pio X di Treviso, dove ha imparato «il rigore della disciplina, la forza del rito, il rispetto delle regole. La danza – sua altra grande passione (insieme alla cucina, alla matematica e alla moda, ndr) – andava nella stessa direzione, educando il corpo alla stessa disciplina» racconta.
Da Treviso a Venezia dove all’università di architettura ha conosciuto grandi professionisti e maestri come Gregotti, Secchi, Pastor, Rossi, ma anche Rafael Moneo, Alvaro Siza e James Stirling, che stavano lavorando a Venezia in quel periodo. Il grande storico Manfredo Tafuri, Howard Burns, esperto internazionale di Palladio, il filosofo Massimo Cacciari, Massimo Scolari, professore a Yale, artista ed esperto internazionale di rappresentazione che «ci ripeteva il valore della cultura nel lavoro dell’architetto: “Ognuno vede quello che sa”». All’università Segantini ha incontrato Carlo Cappai, figlio di Iginio Cappai – socio di Mainardis – e conosciuto a livello internazionale per l’edificio La Serra a Ivrea, progettato per Adriano Olivetti. Con Carlo ha frequentato la bottega veneziana di architettura del padre ed è diventata poi la compagna della sua vita, madre dei loro due figli. Tutto torna. Se oggi si chiede a Segantini di identificare una donna che per lei è stata un riferimento, risponde: Marie Curie, scienziata, moglie e madre.
Nel tempo della gavetta, Segantini ha imparato sul campo che l’architettura è una materia interdisciplinare, che costruisce forme che devono avere senso per l’ingegneria, la botanica, la fisica, la storia, il business, ma non esiste una teoria che ti dice come fare. «Tu sperimenti e ti adatti e mentre fai impari, anche quando sei grande» dice l’architetta. Impegnata con progetti redazionali e di ricerca, ha viaggiato spesso e visitato studi di architetti e università di architettura in Europa. Esperienza diventata fondamentale per guardare criticamente la professione in Italia.
Cappai e Segantini hanno iniziato il proprio percorso professionale vincendo il concorso Opera Prima per la costruzione di 12 alloggi sociali per l’ATER di Venezia, aprono così il proprio studio, C+S: un piccolo spazio di 43 mq a Piazzale Roma, di fronte alla sede storica di Cappai e Mainardis: è un piano terra, piuttosto umido che si allaga con l’acqua alta. «Lo risaniamo e iniziamo a lavorare al nostro primo incarico che finiamo nel 1994, a soli 27 anni! Lo stesso anno, il 1994, ci sposiamo».
Con Massimo Cacciari, Venezia è un laboratorio di progettazione importante in quegli anni. Collaborano per il PRG di Venezia, progettano delle residenze per studenti nell’isola di Murano e firmano la riqualificazione ambientale dell’isola di Sant’Eramo. Nasce intanto il primo figlio, Marco, e dopo sei anni, Tobia. «I bambini li ho portati ovunque: in cantiere, all’università, con i clienti, alle conferenze. Dovendomi adeguare alle loro esigenze, ho più tempo per pensare e sono loro a diventare oggetto di alcune riflessioni che mi portano a decidere di occuparmi di scuole. La ricerca sull’architettura scolastica in Italia è ferma agli anni ’70. Corridoi bui con aule ai lati, pochi spazi di condivisione. Il pensiero che la scuola sia lo spazio in cui entriamo a far parte di una comunità merita di essere guardato con più rispetto».
La ricerca sul tema dell’architettura scolastica sfida la normativa italiana, immaginando involucri trasparenti con aule senza mura e spazi condivisi. «Il modello della scuola costruita a Ponzano Veneto è stato anche un input per le nuove direttive per l’edilizia scolastica. Lo considero un grande risultato personale – racconta Segantini – di una battaglia che dura da 25 anni e che sono stata invitata a raccontare con l’installazione Aequilibrium con l’invito da parte di Alejandro Aravena alla Biennale di Architettura 2016 alle Corderie dell’Arsenale».
Un altro tema di grande rilevanza su cui l’architetta veneta è al lavoro è quello del rapporto tra residenze e spazio pubblico e dieci anni fa per Skira ha pubblicato “Contemporary Housing”. Il focus si concentra sullo spazio pubblico aperto, condiviso e attivabile da parte della comunità che diventa l’estensione della propria casa, e l’applicazione concreta si può apprezzare nel progetto di housing sociale di Cascina Merlata, a Milano, ora in cantiere, all’interno dello sviluppo residenziale più grande d’Europa.
Quando si progetta, si sperimenta, «hai un’idea e la squadra del progetto prima e quella del cantiere poi ti aiuta a realizzarla e mentre si precisa, si deforma un po’, ma diventa reale e tu sei lì per garantire che resti ancora autentica, integra. Tutti avranno imparato qualcosa dagli altri, mentre la tua casa cresce, trasforma il paesaggio e poi viene abitata per essere trasformata di nuovo». Segantini insiste sul tema delle persone e della forza della squadra: «Costruire è un po’ come crescere un figlio. Non succede per magia, non è un tuo prodotto, tutti – nonni, fratelli, zii, insegnanti, tutori, libri, amici, media e social – contribuiscono alla sua formazione e tu sei lì per ga-rantire che quel processo sia autentico, integro e il più ricco possibile».
In 25 anni di attività, i riconoscimenti anche internazionali sono arrivati: lì invito come visiting professor a MIT da parte di Nader Tehrani, la selezione e presentazione del Palazzo di giustizia di Venezia al MoMa di New York, per invito della rivista Log e la Biennale di architettura di Alejandro Aravena sono stati tre importanti momenti della carriera di Maria Alessandra Segantini e del suo studio C+S.
Coniugando ricerca e professione, con l’impegno accademico di professore ordinario a Londra, a Hasselt in Belgio e qualche semestre a MIT a Boston, l’architetta mantiene viva la sua curiosità nell’esplorare argomenti nuovi ed indagarne le possibili declinazioni. Oggi l’architettura è sociale, è città, è partecipazione, è sostenibilità. «La comunicazione veloce rende questi temi accessibili a tutti e questo è un bene – commenta – ma può anche diventare pericoloso: il marketing alle volte ne oscura l’autenticità trasformando la sostenibilità in green washing, la partecipazione in evento mediatico. Con i colleghi di varie parti del mondo – spiega – cerchiamo di far affrontare ai ragazzi progetti concreti, questioni nodali delle loro città e territori. Il confronto con le nuove generazioni e gli stakeholders locali mi permette di osservare modi diversi di affrontare le questioni. Dopotutto l’architettura, per clima, identità e cultura è una disciplina assolutamente locale, ma le questioni che affronta, per essere valide, devono poter essere esportate a livello globale».
Dalle scuole agli spazi pubblici, l’architettura secondo C+S è un servizio e una missione. Richard Neutra progettava le ville per i miliardari e si prendeva cura delle scuole low-budget a Puerto Rico. Gio Ponti lavorava al Pirelli e aiutava gli imprenditori a realizzare la rinascita italiana del Dopoguerra con il design. Lina Bo Bardi scriveva che “gli architetti devono mettere al primo posto non il proprio individualismo formalizzante, ma il desiderio di rendersi utili alla gente”.
«Non dev’essere forse oggi, l’architetto, un combattente attivo nel campo della giustizia sociale? Non deve alimentare in sé il dubbio morale, la coscienza dell’ingiustizia, un sentimento acuto di responsabilità collettiva, e dunque il desiderio di lottare per conseguire un fine moralmente positivo?». Sono domande che l’architetta Segantini si pone sottolineando che «essere un architetto significa risolvere in modo creativo le questioni, traducendo queste soluzioni in forma attraverso competenze diverse. Ma la bella architettura non fa intravedere il lavoro, è leggera come una ballerina che balla sulle punte, mentre i suoi piedi stanno sanguinando».
* tratto dall’ebook “Donne di Design e di Architettura”, Alley Oop, Il Sole 24 Ore