Succede anche questo. Che, come molti altri prodotti dell’agroalimentare made in Italy, il Prosecco non venga solo plagiato e non sia soltanto la prima vittima – per quantità di contraffazioni scoperte – delle frodi da italian sounding. Ogni tanto il Consorzio scova qualcuno che lo usa, il marchio, per vendere panettoni, caramelle, patatine (Pringles, nello specifico, ultimo sequestro in ordine di tempo), persino candele e lubrificanti erotici. In questi casi ovviamente non si può fare altro che denunciare. Per le bottiglie contraffatte, invece, i produttori si sono appena organizzati così: qualcosa di simile a una filigrana digitale consentirà di distinguere un’etichetta autentica da una falsa. Esattamente come accade per le banconote. E infatti la fascetta anti frode è stata presentata alla Zecca dello Stato, lunedì scorso, celebrazioni per il decimo compleanno del brand Prosecco Doc.
«Look alike»
Funzionerà (marketing a parte)? Non servirà? E soprattutto: si rivelasse utile, sarebbe replicabile? Non è una novità, che Italian sounding, look alike, contraffazione vera e propria siano il peggior nemico di uno dei quattro comparti chiave della nostra economia. Fanno lo stesso ogni volta effetto, però, gli aggiornamenti delle relative statistiche.
L’agroalimentare vale 140 miliardi di fatturato, pesa per il 2,2% sul Prodotto interno lordo, dà lavoro a 440 mila persone. Al suo interno c’è quella che il Rapporto IsmeaQualivita definisce DopEconomy: battono bandiera italiana 822 delle 3.036 denominazioni protette/garantite riconosciute al mondo, e quelle 822 generano 15 miliardi di valore alla produzione, con un export che sfiora i 9 miliardi.
Non c’è tuttavia nessun Prosecco (per inciso: 2,4 miliardi il volume d’affari) con cui brindare a questi numeri. Perché potremmo fare infinitamente di più se è vero che, dal parmesan in giù, tutto ciò che suona o sembra italiano, ma non lo è, alimenta un business globale stimato tra i 60 miliardi (Rapporto Food & Beverage, The European House Ambrosetti) e i cento miliardi tondi (valutazione Coldiretti). Un giro comunque enorme. Un mercato che, anche al netto della differenza di prezzo tra gli originali e le imitazioni, nella peggiore delle ipotesi consentirebbe all’Italia di aumentare del 3040% la sua produzione e le sue vendite all’estero. Riequilibrando così, tra l’altro, una bilancia commerciale in qui l’attivo dell’industria agroalimentare non basta a pareggiare il passivo dell’agricoltura.
Possiamo lamentarci all’infinito, dell’inefficacia delle regole internazionali di tutela e della conseguente impunità, di fatto, di una concorrenza tanto smaccatamente sleale. Ma questo è solo un lato della realtà. L’altro è per certi aspetti persino più sgradevole: dovremmo ammettere che italian sounding & Co. sono un po’ anche colpa nostra. Quel mercato enorme noi lo regaliamo. Abbiamo pochi grandi gruppi: ma non si può dire che le Ferrero o le Barilla non facciano la loro parte. Abbiamo parecchie eccellenze medio-piccole: e i 30 Champions che hanno passato i rigorosi criteri di selezione, in questa quarta e ultima tappa del viaggio L’Economia-ItalyPost dentro il meglio di Industria Italia, dimostrano fino a che punto possano essere sfruttate le potenzialità di un Food & Beverage che all’estero ci invidiano esattamente quanto invidiano le nostre griffe della moda, della meccatronica, della farmaceutica. Dalìinpoi,però,èil regno di Lilliput. Vastissimo. Nella sola filiera alimentare (bevande escluse, ma in proporzione il campo è altrettanto frammentato) le imprese sono oltre 53 mila. In teoria va benissimo: lo si può leggere come segnale di vitalità. In pratica, è il nostro limite. Il 98% di quelle imprese, dunque suppergiù 52 mila, non appartiene nemmeno alla categoria delle piccole aziende:è nella fascia piccolissime-micro.
Idee da export
Possono portare all’estero le loro mozzarelle, i loro tiramisù, i salumi e i vini, con queste dimensioni? Complicato. Possono crescere quel tanto che basta per riuscirci, e andarsi a prendere almeno un po’ del mercato usurpato dall’italian sounding? Sì. Possono. Lo confermano molti dei percorsi imprenditoriali che sentiremo raccontare direttamente dai Champions venerdì prossimo, al quarto incontro in Bocconi.
Sono aziende abituate ai record: negli ultimi sei anni il loro giro d’affari è salito in media del 6,8% l’anno, oltre il doppio rispetto al 3,2% del settore, e con profitti industriali pari (nell’ultimo triennio) al 13,86% contro il 7,6%. Una in particolare, tra queste imprese, ha tutti i requisiti della case history. La Andriani di Gravina in Puglia pochi anni fa non esisteva. Nasce nel 2004, i fondatori premettono «Molino» al nome di famiglia perché è pasta, quel che producono. Ancora nel 2012 fatturava poco più di otto milioni. Nel 2018 ha superato i 55, il che significa una crescita del 38% l’anno, e con tassi di redditività all’altezza: profitti industriali vicini al 20%, ritorno sul capitale superiore al 25%. Quali sono i segreti di performance del genere non nel lusso, ma in un settore che non potrebbe essere più tradizionale e maturo di così? Il primo è l’idea iniziale, naturalmente, l’aver saputo anticipare il mercato. La Andriani è un «Molino» sì, ma che parte lavorando materie prime senza glutine, cui aggiunge il bio, cui somma la filiera dei legumi alla base delle nuove farine. Risultato: è diventata in fretta il terzo player italiano del gluten free, esporta ormai in una trentina di Paesi, la quota di export ha superato il 50%. A dimostrazione che «si può».
*L’Economia, 25 novembre 2019