I robot, va bene. L’intelligenza artificiale, okay. L’Industria 4.0 che sta ormai diventando 5.0: sappiamo anche questo. Niente tuttavia rende davvero l’idea se, poi, non si entra in uno stabilimento. Lì basta un’immagine. Molto più semplice della teoria, infinitamente più efficace. Com’è questa, una delle tante scattate da Marco Bentivogli e Diodato Pirone. Pagina 97 di Fabbrica Futuro, due righe due: «Silvia è un’operaia che praticamente non usa i tradizionali attrezzi da lavoro.Niente chiave inglese, niente avvitatore». Chi faceva il suo lavoro prima di lei li ha adoperati fino all’altro ieri, sulle linee di produzione delle Giulia e delle Stelvio che Fca costruisce ora (crisi permettendo) a Cassino. Idem in tutti gli impianti auto, di ogni casa, in ogni Continente. Oggi in mano Silvia ha soltanto un tablet: il controllo qualità si fa così anche alla catena di montaggio. In Italia, quindi negli altri «plant» di quella che nel frattempo è diventata Stellantis, è la norma. Nel resto del mondo non sempre, o non ancora.
Diciamo che questo è un simbolo riassuntivo, la «chiave inglese» più immediata per leggere il saggio dell’ex leader Fim-Cisl e del giornalista de Il Messaggero. Silvia è una dei tanti operai, tecnici, ingegneri, manager incontrati nel loro viaggio tra gli stabilimenti Fca. Incontrati, e soprattutto ascoltati. Era l’obiettivo principale: dare voce alle fabbriche, rese afone da un Paese che chiacchiera molto di cultura d’impresa ma appena uscito dai convegni torna a sedersi sui propri conformismi. Lo sappiamo davvero, pur discutendone e dividendoci sul tema, cos’è «cultura d’impresa»? E perché di «cultura del lavoro» non parliamo invece mai? Meglio (o peggio) ancora: per quale ragione se un operaio, un impiegato, un apprendista si spingono fino a tradurre la parola «cultura» in «orgoglio», addosso si sentono occhiate di sospetto?
Oltre gli stereotipi: Le risposte (documentate, come ci si aspetta da un saggio) sono a volte scomode, quasi sempre controcorrente.Quale fosse la loro sfida, Bentivogli-Pirone lo dicono del resto subito, e piatto piatto. Il prologo attacca così: «Se escludiamo gli stereotipi del giornalismo ideologico e di quello pigro, sono più di trent’anni che in Italia non si parla di fabbriche per quello che sono. Non le si descrive e non si racconta con rispetto la vita quotidiana dei lavoratori. Non li si fa parlare di quello che fanno e di come lo fanno».
È vero, in parte. Un po’ esagerato — non è che proprio tutti abbiano smesso di raccontare le fabbriche e lavoratori «per quello che sono»– ma mediamente vero. D’altro canto (contro-provocazione): non è spesso è il sindacato, il primo a parlare d’altro? Chiederlo a Bentivogli è pura retorica, considerata la sua personale storia sindacale e, va da sé, quella della Fim: riformisti al punto da essere accusati di filo-aziendalismo. La domanda non è inutile, però. Serve a sintetizzare l’altro focus del libro. È evidente la ragione per cui, per dar «voce alle fabbriche»,
con Pirone hanno scelto gli stabilimenti Fiat-Fca. È lì che è iniziata la rivoluzione degli «operai 4.0». Il rivoluzionario si chiamava Sergio Marchionne. Era un leader che l’Italia prima ha amato, poi odiato, poi rivalutato, infine dimenticato in fretta. Quando ha ribaltato gli schemi novecenteschi in Fiat, nelle relazioni industriali, nei rapporti con la stessa Confindustria, nei contratti di lavoro, ha sicuramente diviso e incendiato: ma, che lo riconosciamo (e ce lo ricordiamo) o no, alla fine è stato quello il fattore scatenante di una modernizzazione della cultura d’impresa, delle fabbriche, del lavoro ancora relativa e però via via più diffusa.
Tra Pomigliano e Parigi: Facile previsione: «Siamo certi che qualcuno vedrà in questo libro un’ode a Fca e a Sergio Marchionne». Pazienza. Tanto a pensarlo per primi saranno probabilmente gli stessi che (a partire dai piani alti torinesi) hanno immediatamente dato il «la» alla rimozione collettiva di una figura «troppo complessa, troppo ingombrante per noi italiani, sintonizzati più sulla frequenza del Gattopardo». Quindi sì, certo che Fabbrica Futuro è anche un omaggio all’uomo «arrivato quando a Mirafiori avevano chiuso l’acqua calda delle docce» e «ha lasciato fabbriche ristrutturate fin dalle fondamenta»: «La sua eredità più preziosa, perché sono rinate valorizzando il lavoro». E questo è il punto. Pomigliano era la fabbrica-vergogna, oggi è la fabbrica-gioiello che manda una sua squadra a Detroit a insegnare agli americani come si organizza una linea. Melfi era «morta», e con lei un intero territorio: quando sono arrivate Jeep e 500X la Basilicata è finita in testa alle regioni con il più alto tasso di crescita dell’export e del Pil.
Poi ci sono le «incompiute», è vero. Mirafiori, l’Alfa Romeo. Ma, nel complesso, tra le altre cose «va detta con chiarezza una verità importante: nei 14 anni di gestione Marchionne» i dipendenti italiani di Fca sono saliti «del 3,8%, pari a 3.200 posti di lavoro»,con l’efficienza e la produttività «in questi anni sono aumentati i salari», l’introduzione del Wcm ha fatto dell’operaio 4.0 qualcuno cui la «fabbrica militare» per antonomasia chiede di pensare e suggerire anziché eseguire e basta. Resisterà, tutto ciò? Quando Bentivogli e Pirone hanno pubblicato il libro, John Elkann aveva da poco rovesciato il tavolo delle trattative con la riluttante Renault, e tuttavia era comunque chiaro che «il matrimonio di Fiat con un altro player è solo rinviato». È arrivata Psa. La prima mossa italiana di Carlos Tavares è stata la stessa di Marchionne 2004: ha visitato una per una le fabbriche. Le ha elogiate, e non per pura educazione, ma in termini di garanzia di futuro questo non significa granché. Per cui, se è vero che «le fabbriche d’auto restano una leva strategica per l’economia e la società», il problema è: con i francesi di fatto più «pesanti» in Stellantis e con una politica industriale italiana fin qui inesistente, se ci sarà da razionalizzare gli impianti dove cadrà la scure? Nel caso, dice Bentivogli, non prendiamocela con Parigi: «La questione è l’assenza del nostro governo». Almeno prima di Mario Draghi.