Le ultime notizie di fonte parlamentare segnalano come i rappresentanti della Lega si stiano impegnando alacremente in queste ore nel presentare emendamenti al decreto sul reddito di cittadinanza. Il leitmotiv dei testi è delimitarne il perimetro, renderne più ardua l’esecuzione, modificare l’identità di quella che Luigi Di Maio e i suoi collaboratori considerano la più importante riforma sociale dal dopoguerra ad oggi. È facile pensare che questa sia la replica degli uomini di Matteo Salvini alla pubblicazione e alla curvatura dell’analisi costi-benefici sulla Tav, che sposa in pieno le tesi grilline di inutilità dell’opera e smentisce clamorosamente la recente visita del vicepremier leghista al cantiere di Chiomonte. Dopo questo botta e risposta la più immediata delle conclusioni che si possono trarre è che siamo entrati in piena stagione post contrattuale. Sembra non tenere più il famoso contratto tra Lega e Movimento 5 Stelle ovvero la forma politico-programmatica con cui erano stati abilmente compattati gli indirizzi di fondo di due forze politiche, che avevano vinto le elezioni senza essersi presentati agli elettori come potenziali alleati.
F ormalmente la ripresa dei lavori della Tav non faceva parte del contrattoma dopo un’iniziale freddezza i leghisti del Nord hanno cominciato a presidiare anche quest’area di consenso pur di non perdere la presa con la piazza e gli imprenditori torinesi, e alla fine appaiono anch’essi vittime del verdetto del professor Marco Ponti.
L’effetto concreto della divaricazione di obiettivi e di comportamenti politici sarà quello di avere un governo a doppio pedale e una guerriglia parlamentare pressoché quotidiana, condotta da deputati e senatori di governo contro altri colleghi che sostengono la coalizione. Un fuoco amico elevato a prassi ordinaria che rende facile anche individuare le prossime scorribande a portata di mano dell’anima più oltranzista dei 5 Stelle: il voto con suspense per la richiesta di autorizzazione a procedere per Salvini e la decisione sull’autonomia rafforzata. Il guaio è che in questa storia di ripicche e di concorrenza elettorale, di Tav azzerate e di navigator senza patente nautica, ci va di mezzo il Paese. C’è in entrambi i partiti che guidano il governo una sottovalutazione della discontinuità che si è aperta nell’economia. Il fenomeno non riguarda solo l’Italia visto che nei giorni scorsi l’ Economist è arrivato addirittura a chiedersi se sia inceppato il celebratissimo modello tedesco («Is the German model broken?»), ma sappiamo per certo che tutti gli indicatori segnalano un peggioramento del ciclo, che il clima di fiducia delle imprese sta crollando e che, quando nell’economia mondiale piove, da noi come minimo grandina. Nessuno ha la sfera di cristallo tanto da dirci con assoluta sicurezza che cosa ci aspetta nei prossimi mesi, i leader di governo però sembrano avere la testa altrove.
Alle nomine, ad esempio, visto il crescente attivismo dei massimi dirigenti della coalizione nel riscrivere da capo a fondo gli organigrammi del potere e dell’amministrazione. La stessa attenzione non è spesa invece sui dossier che contano. Dei leader che non perdono occasione per entrare a piedi uniti sulle scelte dell’allenatore Gattuso o sulla classifica finale di Sanremo osservano invece un silenzio assordante sull’andamento del mercato del lavoro a tre mesi dall’approvazione della legge Di Maio. Quanto alle crisi aziendali, e solo per limitarsi ai casi più evidenti, le soluzioni prospettate allo stop di Termini Imerese e alla vendita dell’Iribus non sono decollate. Non parliamo poi di Alitalia: il ministro ad ottobre aveva promesso, tra gli applausi, una soluzione entro fine mese e la salvaguardia di tutti i posti di lavoro e siamo invece ancora a «caro amico». Se poi volgiamo l’occhio alla crisi del settore dell’automotive non pare proprio che al ministero ne abbiano compreso né la portata né le conseguenze. Ma un’analisi costi-benefici della recessione nessuno avrà il coraggio di ordinarla.