Works, una sorta di racconto memoriale, è soprattutto un compendio del progetto di scrittura perseguito dall’autore nel corso della sua carriera letteraria, cinematografica e teatrale.
Trevisan attraversa l’opera con la sua voce e la sua storia a partire dall’adolescenza con il suo primo lavoro in fabbrica. Racconta di un’Italia in cui convivono illegalità, corruzione e droga, in un intreccio di contraddizioni. La narrazione si conclude intorno ai suoi quarant’anni, quando decide di dedicarsi esclusivamente alla scrittura.
La condanna tutta umana al lavoro inizia per Vitaliano Trevisan a quindici anni, quando una sera a cena chiede al padre una bicicletta nuova, da maschio, perché girare con quella della sorella maggiore significa essere preso in giro dai compagni. Per tutta risposta, il padre lo porta nell’officina di un amico che stampa lamiere per abbeveratoi da uccelli: “Così capisci da dove viene”, gli dice, alludendo al denaro. Inizia per l’autore una “carriera” che è un succedersi di false partenze: dal manovale al costruttore di barche a vela, dal cameriere al geometra, dal disoccupato al gelataio in Germania, dal magazziniere al portiere di notte, fino allo spaccio di droga e al furto, “un commercio che obbedisce alle stesse fottute regole di mercato”.
Trevisan racconta gli anni Settanta schiacciati tra politica ed eroina, cui sembra essere sopravvissuto quasi per caso, la storia di un matrimonio e della sua fine, le contraddizioni del mondo della cultura – dove per ironia della sorte la frase più ripetuta è “non ci sono soldi”, la stessa che gli propinava il padre – e la sofferenza psichica, il percorso pieno di deragliamenti di un ragazzo destinato a fare lo scrittore.
I quindicimila passi, la storia di una mente assediata, il resoconto di un evento eccezionale. La liberazione e la fuga, tutto in un lunghissimo tragitto a piedi. Thomas conta i passi, in un taccuino che porta sempre con sé, il numero dei passi che lo separano – o lo portano – da casa ad un altro luogo. Un resoconto che dà modo a Trevisan di attraversare con le parole tanti di quei vicoli ciechi e strade mal illuminate di un’Italia che in questo caso si riduce al Veneto e a Vicenza, ma può elevarsi alla nazione intera.
Thomas conta i passi. Da casa alla questura, millecinquantatre passi. Da casa al tabaccaio, settecentonovantuno, da casa allo studio del notaio Strazzabosco a Vicenza, quindicimila passi. Conta con una precisione metodica, senza mai lasciarsi distrarre, perché il vuoto che si porta dentro va riempito di incombenze continue, contare camminare calcolare. Gesti esatti, netti, in un tentativo ossessivo di guarigione dal tema che lo incalza della solitudine e della morte. Intorno, la follia di una strada che ai suoi occhi «è sempre una sola», cinta da quello che a lui pare assurdamente un bosco e che invece non è niente, solo veleno e discarica e cancrena urbanistica di una provincia veneta ridotta a una scheletrica waste land industriale.
Alle sue spalle, Thomas non si lascia indietro anima viva, scomparsa ormai la sorella, scomparso il suo assassino già lontano, partito per chissà dove, «evaso» dalla sua casa, da un delirio amoroso ossessionante, dai genitori da sempre assenti, da un fratello che gli è apparso fin da subito straniero perché troppo lucido, troppo responsabile. Ma niente è come sembra: lungo la strada il protagonista avverte i segni di una tara psichica che lo assedia e lo confonde, le schegge di un orrore che lo investe in pieno. E sente la sua realtà cedere mentre i passi lo conducono diritto nel cuore della verità più atroce.
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