Le ombre, intanto, e giusto per togliere subito di mezzo qualunque sospetto di retorica. Materie prime: il rincaro rischia di non fermarsi tanto presto, e comincia a pensarlo anche chi fino a poco tempo fa prevedeva che la “bolla” avrebbe cominciato a sgonfiarsi già da settembre-ottobre. Semiconduttori: sono ormai più difficili da trovare delle terre rare che servono a produrli – nota non secondaria: è la Cina ad averne di fatto il monopolio – perciò non è il caso di farsi illusioni, in attesa delle future nuove fabbriche europee i microchip arriveranno per chissà quanto ancora carissimi e col contagocce (letteralmente: in una manciata di mesi il prezzo è volato da 90 centesimi a 70 euro, altrettanto insostenibile della consegna a 50 settimane che almeno fino ad agosto era l’unica alternativa). Il funzionamento a singhiozzo dei grandi porti, soprattutto – riecco Pechino – in Cina: a Ferragosto la chiusura dell’ennesimo mega hub (causa Covid, recita la scontata versione ufficiale della Repubblica Popolare) ha aggiunto strozzature a strozzature nella circolazione globale delle merci e, dunque, nuove basi alla risalita dei noli, del costo dei trasporti, della catena che porta al prezzo finale di qualsiasi prodotto.
Uno scenario da incubo, che non sarà facile per nessuno, in nessuna parte del mondo, disinnescare. Attenuarlo, smontarne i pezzi uno per uno è un po’ alla volta sì, certamente. Farlo sparire totalmente, di colpo: no, impossibile. Anche se avessimo una bacchetta magica.
Eppure. Per quanto potenti e minacciosi siano, i nuvoloni che proiettano queste ombre sull’economia globale, non lo sono al punto da annullare le luci che l’Italia, per una volta, è riuscita ad accendere meglio di altri Paesi. E se da un lato sono i nodi – compresi quelli tipicamente tricolori, naturalmente – quel che abbiamo scelto di mettere al centro dei tre giorni di incontri al Città Impresa – Festival delle Imprese Champions, non è per pessimismo (tutt’altro) né solo perché sono e saranno questi, i temi dell’attualità politico-economico-sociale ora e nei prossimi mesi. A un anno e mezzo dall’esplosione della pandemia che ha messo in ginocchio il mondo. Nel mezzo della fortissima ripresa che fin qui ha scandito, protagonista quasi in solitaria, il 2021 della nostra economia.
Lo si può leggere come un paradosso, ma è anche un dato di fatto: in fondo, nel buio le luci si vedono di più. Noi, Paese che non pare avere vie di mezzo tra il darsi addosso (ma non quando servirebbe) e l’esaltarsi (ma non quando ne avremmo motivo, salvo che non si tratti di sport), ne abbiamo più di quanto abitualmente pensiamo. Dobbiamo però imparare a (ri)conoscerle. E ad apprezzarle, magari.
Siamo una Repubblica fondata sul lavoro e, aggiungiamo fuori dagli articoli della Costituzione, sulla piccola-media impresa. Ci ripetiamo che questo – le dimensioni delle aziende – è un limite. È certamente vero: non possono che essere i colossi, a fare e disfare i mercati globali. Ma questo è quello che abbiamo (pur se sarebbe bello poter dire “quello da cui partiamo”). E in questo – ogni tanto sarebbe il caso di ricordarlo – forse siamo i migliori, capaci come pochi altri di individuare nicchie e costruirci sopra imprese piccole e medie, sì, ma leader mondiali dei rispettivi mercati. Le mille aziende Champions che da quattro anni ItalyPost e L’Economia del Corriere della Sera cercano (analizzando migliaia di bilanci, in serie di sei anni) e raccontano (andando a visitarle, parlando con gli imprenditori), sono per lo più sconosciute (lo erano anche a noi), lavorano lontano dai riflettori, non stanno nel circuito mediatico-politico. Eppure sono loro, punta di diamante di una cultura imprenditoriale nuova e per molti versi insospettata, a fare da locomotiva al Paese quasi quanto i pochi grandi gruppi che alle radici nazionali non hanno rinunciato.
È ascoltando loro, che ci siamo accorti – a inizio 2021 – che la ripresa post-pandemia sarebbe potuta diventare vero e proprio boom, con tassi che persino i primi (ex, forse) della classe tedeschi ci invidiano. E sono sempre loro che, con largo anticipo, ci hanno pre allertato su quello che in effetti, oggi, rischia di gelare la corsa nostra e di tutte le economie occidentali. Diciamo che assomigliano molto a quella che ormai tutti chiamiamo “l’Italia di Mario Draghi” – basso profilo, alta leadership – e che però non sono loro, a essere cambiati: è solo la prima volta che hanno un premier nel cui stile – in questo caso sostanza – si riconoscono. Non si “conoscono”, però, con gli uomini e le donne del governo nato il 13 febbraio 2021 e diventato in fretta, grazie a chi lo guida, indiscusso punto di riferimento internazionale. Vicenza sarà l’occasione. Senza chiacchiere, meno ancora polemiche. La base saranno le storie, le esperienze, il “vissuto” quotidiano sui mercati. E forse così il confronto o, meglio, il dialogo su quel che si può fare – insieme – perché la corsa dell’Italia verso un possibile boom non sia bruciata dai rincari delle materie prime e perché l’enorme chance dei fondi europei non anneghi negli aiuti a pioggia cari alla vecchia politica, durerà oltre lo spazio di un convegno.
*Inviato speciale de L’economia del Corriere della Sera e direttore di quest’edizione del Festival Città Impresa