Quella che i nonni avevano messo su ai piedi delle Dolomiti bellunesi, subito dopo la guerra, era una bottega di filatura della lana. Alessio Cremonese e i suoi tre fratelli ne hanno fatto un leader mondiale dell’abbigliamento tecnico sportivo: la Valcismon oggi fattura 93,7 milioni, ha battuto i tre mesi di fabbriche ferme aumentando comunque del 10% il giro d’affari 2019, in portafoglio ha ordini che le consentono di puntare a quota 120 milioni già per fine 2021. Se ci riuscirà, farà un ulteriore salto anche tra i Champions. Fin qui è tra i gli 800 «piccoli» Campioni. Il prossimo anno no, ma quello dopo ancora potrebbe esordire nella Top delle 200 imprese medio-grandi.
Gruppi in fuga
Lì, cioè tra le società con ricavi tra i 120 e i 500 milioni, Cremonese potrebbe non trovare già più Sergio Dompé e il suo gruppo farmaceutico. Paradossalmente: cresce troppo (e in fondo è questa la «professione» dei Champions). Partiva
da un fatturato di 150 milioni nel 2013, era salito a 438 nel 2019. Significa che, nei sei anni di bilanci esaminati, il volume di attività Dompé è triplicato. Ed è esplosa la redditività: 27 milioni il margine industriale lordo ancora nel 2017 e 2018, 203 milioni nel 2019. Utili netti a 124 milioni. Situazione finanziaria e patrimoniale ai massimi livelli di solidità tra aziende che, solide, lo sono per definizione (in caso contrario non c’è performance che possa bilanciare e consentire l’ingresso tra i Champions). Dopodiché, è arrivata la pandemia. Non è vero che tutta l’industria farmaceutica ne ha beneficiato, anzi, la media del settore è addirittura in leggerissimo rosso (0,6%). Dompé ha portato il fatturato a 537 milioni, il reddito operativo lordo a 254, gli utili netti a 147. I parametri da «campione» restano tutti, e sono semmai rafforzati. Ma, ormai, ha anche scavalcato il limite convenzionale che fa da confine tra le medie e le grandi imprese. Happy problem, come si dice, «felice problema». E del resto è per questo, che «L’Economia» ha iniziato quattro anni fa a seguire, con ItalyPost, il mondo delle Pmi: per individuare quelle tra loro che saranno «le grandi» di domani. In quattro edizioni, qualche azienda si è persa, qualcun’altra è passata a gestori professionali o in mani straniere (e il nostro report si concentra sulle società private, a maggioranza familiare e Made in Italy). Moltissime però sono presenti dall’inizio,tra le Top (diventate mille in tutto, nel frattempo), e il monitoraggio si è rivelato il modo migliore per seguirne lo sviluppo, i punti di forza, le capacità di reagire ai diversi scenari di mercato.
La pandemia
Un anno come quello appena passato ha messo alla prova loro come chiunque. Non c’è Champion del turismo, della ristorazione, di qualunque altro settore azzerato dalla pandemia che non abbia pagato carissima la pandemia. Ci sono Champions, però, che hanno aperto i paracadute patrimonial-finanziari aziendali, hanno usato il lockdown per preparare la ripartenza e magari ripensare il modello di business, alla finehanno perso meno del comparto di riferimento.
Dove è andata così così, tipo nell’alimentare diviso tra la crescita della grande distribuzione e la paralisi di hotel, ristoranti, bar e affini, dai Campioni sono spesso arrivate performance inattese. Esempio. La Lauretana, come tutti i grandi marchi di acque minerali, si trova tanto nei supermercati quanto nel canale Horeca. I primi sempre aperti, il secondo praticamente sempre chiuso. È chiaro che è stato un enorme problema. Risolto in fretta, a guardare i risultati.Il bilancio 2020 appena firmato da Giovanni Vietti e Antonio Pola, il presidente e l’amministratore delegato, mostra una crescita del fatturato del 9,12%(a 44,8 milioni), cioè non troppo al di sotto del 12% medio del periodo 2012-2019, con un incremento esponenziale della redditività: i margini operativi lordi sono saliti da 10,8 a 15,8milioni(unterzo deiricavi), gli utili netti da 6,2 a 9,8 milioni.
Sostenibili
C’è un altro fronte, che accomuna i «Campioni». A unire Valcismon, Dompé, Lauretana, gli altri imprenditori della Top Mille è il link alla voce «sostenibilità». In tutte le sue varie declinazioni — economica, sociale, ambientale — la considerano una questione etica e insieme (sia detto per chi non ritiene l’etica un obbligo) un fattore-chiave del successo. Ci investono da anni prima che diventasse una moda — da green-washer, spesso: quelli che di verde si danno solo una verniciata esterna — e per qualcuno è direttamente il core business. Nordpan, per dire, costruisce i pannelli per le case di legno che poi fabbrica la capogruppo Rubner Haus. È una Champion da una settantina milioni di ricavi, con una redditività industriale attorno al
10%. Come il gruppo cui appartiene è «eco» per definizione, e a ogni buon conto Deborah Zani, la ceo di Rubner, sintetizza il concetto nelle tre parole d’ordine in uso a Chienes, Trentino-Alto Adige: «Riciclo, riuso, biodegradabilità».
È quello che chiedono sempre più i consumatori, giurano gli esperti. E se è vero che la pandemia ha accelerato, seguiranno due boom: attenzione a quello del greenwashing.