Quello che del capitalismo familiare nessuno mai racconta o, se capita, è perché il lancio di stracci e coltelli finisce con l’atterraggio in Tribunale. Quello che sembra tutto una parodia, e non lo è. Quello che leggi e dici no, dai, questa Alberto Albertini se l’è inventata. Paolo Villaggio ci ha dato il ragionier Ugo Fantozzi, lui ci dà l’ingegner Cesare Cagnoni. Solo che l’impiegato Fantozzi è stato certamente lo specchio di una realtà Anni Settanta e però era, comunque, una caricatura. Non è possibile, pensi, che in un’azienda degli Anni Duemila siano i «mega direttori galattici» a essere persino peggio dei personaggi creati dall’attore genovese. Che siano le famiglie-azioniste, a rivelarsi «classe avversa» a sé stessa.
Parabole: E invece. Per raccontarla, La classe avversa, l’autore ha scelto il romanzo. Ma è solo la formula narrativa, più efficace del saggio per spiegare certi meccanismi fuori dai circoli accademici. E a maggior ragione utile se chi li descrive, quei meccanismi, li ha vissuti in prima persona e ovviamente dall’interno. L’Albertini scrittore non ha gonfiato un solo episodio della parabola di un’azienda che è stata anche (in parte, e in teoria) dell’Albertini figlio dell’imprenditore, né una singola parola dei dialoghi tra colleghi, tra soci, tra dipendenti-manager-proprietari. Fa tutto parte dei lati oscuri che segnano il confine tra il capitalismo familiare virtuoso e di successo, al di là delle generazioni, e il suo opposto. Il nepotismo esasperato che imputiamo alla peggior politica ha a volte (non poche) piena cittadinanza anche qui, nel privato, dentro quelle piccole e medie imprese che sono l’asse portante dell’economia italiana ma non sempre e non necessariamente sono un modello positivo.
Non quando porta, per esempio e per dirla con il libro, a voler«lasciare l’azienda a tutti i costi ai propri figli», che siano o no all’altezza (no, spesso). E c’è l’altro limite, parallelo: la logica per cui «certi capitani d’industria credono di essere immortali»,e neppure a settanta, persino ottant’anni cedono un solo spicchio di timone a eredi che, magari, saprebbero prendere molto meglio il vento (e alcune colpe, però, a loro volta le hanno: se a un certo punto non vanno a prenderselo, almeno un po’ di potere, qualche dubbio è giustificato).
Albertini è spietato, nel raccontare «the dark side», e poiché il romanzo è evidentemente autobiografico non risparmia nulla nemmeno alla versione letteraria del suo «io». Il protagonista è tra i «buoni», sì, sta dal lato giusto della storia, vero, ma si tiene sempre in gola i «no» che servirebbero, e questo basta a farne un com-plice della parte «sbagliata». Detto ciò: per trent’anni e passa l’autore ci ha lavorato, in quell’azienda, l’ha visto come può succedere che una piccola fabbrica nata dal
niente e diventata in fretta leader nel proprio settore (la pressofusione), scivoli ancora più in fretta dai campioni
dell’eccellenza meccanica Made in Italy a società che, dopo un paio di passaggi all’estero, è cresciuta e ha raddoppiato il volume d’affari, certo, e tuttavia su un centinaio di milioni di fatturato oggi ne perde più o meno 39.
È un ingranaggio che da virtuoso gira in perverso, fino a stritolare chi l’ha innescato senza che neppure se ne accorga. Nella fabbrica del libro (e della vita di Albertini) si mette in moto nel più classico dei modi. Se c’è un paradigma delle aziende familiari di successo, ce n’è anche uno che segnale potenziali dinastie destinate a naufragare già alla prima generazione. A un certo punto si incomincia a litigare, quasi sempre la questione è il ruolo dei figli, regolarmente i fratelli che andavano d’amore e d’accordo finiscono nell’angolo.«Nella valle dove abita» il Presidente (con la maiuscola), per dire, di fabbriche «ne sono fallite tante per le lotte fratricide e lassù dicono: “Le aziende che funzionano hanno soci dispari. Ma tre sono troppi”». E infatti. Qui sono in tre. Il Presidente, in quanto finanziatore, ha in mano il 70% e dunque il gioco. «Il patto tacito»con lui «aveva due sole regole:“Le mogli stanno fuori e voi non dovrete mai litigare”. Una volta infrante, arriva il manager esterno».
I «decisori incerti»: Può andar bene, può essere la soluzione del problema dei problemi: il ricambio generazionale. Ma se si sbaglia la scelta, il copione è scontato. Potrà sembrare che La classe avversa lo esasperi, che il ritratto di Cagnoni sia una parodia. Non lo è («Pura cronaca», giura Albertini), e meno ancora lo è la sintesi.Questa è scelta tra le frasi meno feroci: «Il vero leader attiva energie e persone intorno a sé, mi avevano insegnato in un corso alla Bocconi. Lui accende rabbia e odio. Lui è il “decisore incerto”. Lui è un caimano che va bene per tutte le paludi: nuova auto e nuovo smartphone e ricomincia altrove. Ha già cambiato dieci posti di lavoro, al contrario dell’imprenditore che ragiona sul lungo termine e deve essere per forza lungimirante».
Per forza? In un mondo ideale. In quello reale, succede (anche) come al Presidente: che, accecato dai successi passati, va al bar del paese su in valle a farsi bello del suo essere padrone, ma dietro le quinte «hanno tanto debito quanto il fatturato, da tempo ha in mente di vendere l’azienda». E intanto, «suo figlio si è comprato l’orologio Richard Mille, l’Aston Martin DB9 di James Bond e una squadra di calcio che vuole portare dalla serie C alla serie A».
Ecco.Il lato oscuro del capitalismo familiare è anche, forse soprattutto questo. Certo: non è la norma. Ma se qualcuno pensasse ancora che è un’esagerazione, o un’eccezione, faccia un salto da Aldo Bonomi. In ufficio, alle Rubinetterie Bresciane, ha sempre almeno una copia de La classe avversa. È per regalarla agli amici imprenditori — tanti, essendo lui stato anche presidente degli industriali di Brescia e vicepresidente di Confindustria— che lo vanno a trovare. La accompagna con queste parole: «Leggi. Capirai il rischio che corriamo».