Joël Dicker «L’uso del web uccide il lavoro degli scrittori»
Il quinto romanzo è ambientato nella sua Ginevra e ruota attorno a un delitto avvenuto decenni prima. Tra le fonti di ispirazione Bernard de Fallois, il suo primo editore: È stato un grande professionista e l’uomo che ha cambiato la mia vita»
Tutto è importante, per Joël Dicker. I suoi lunghi romanzi pieni di colpi di scena e di sotto-intrecci si leggono di corsa: si vuole scoprire chi è il colpevole ma ancora prima si è curiosi di sapere subito che succede nella pagina successiva. È il dono di alcuni scrittori di bestseller, e Dicker, oggi 35enne, ha dimostrato di possederlo a cominciare dal successo mondiale del 2012, «La verità sul caso Harry Quebert». Ma se le pagine si voltano in fretta, lo stesso non accade nella vita dei personaggi e di Dicker stesso. Come i libri precedenti, anche «L’enigma della camera 622» ruota intorno a un omicidio avvenuto decenni prima, un cold case a cui nessuno pensava più ma che è giusto, importante, anzi fondamentale riaprire. L’apparente paradosso è che più i lettori voltano le sue pagine con impazienza, più Dicker riflette sulla ricerca di identità, e rimugina sugli eventi piccoli e grandi che hanno definito le vite dei personaggi e anche la sua. Tutto è importante e profondo, per Joël Dicker, e questo c’entra forse con il successo enorme, non superficiale, dei suoi page turner. In una videochiamata con la sua casa di Ginevra, dove ha passato il confinamento, cominciamo dal nuovo, quinto romanzo e finiamo a parlare di amicizia eterna, Google «nemico di ogni scrittore», amore, e della letteratura come antidoto e salvezza.
«L’enigma della camera 622» ha molte caratteristiche di un classico Joël Dicker, più alcune novità di peso. È il primo romanzo scritto dopo la morte del suo editore, mentore ed amico Bernard de Fallois, la cui presenza attraversa tutto il romanzo. Come mai ha scelto di rendergli omaggio in questo modo?
«Bernard è morto nel gennaio di due anni fa a 91 anni. È stato un grande editore e l’uomo che ha cambiato la mia vita, decidendo di pubblicare un manoscritto che era stato rifiutato da tutti gli altri. Ma a parte questo, era una persona unica. Un uomo pieno di benevolenza e di curiosità, faceva un sacco di domande perché voleva capire le persone. Quando è mancato mi sono messo subito a scrivere su di lui, volevo fissare il ricordo prima che diventasse opaco. Pensavo di pubblicare un piccolo libro, poi ho pensato di mettere tutti questi episodi di vita vissuta con lui all’interno di un romanzo un po’ all’antica, che ruota intorno a un omicidio in una stanza di un grande albergo di Ginevra, un’atmosfera un po’ alla Agatha Christie. Così Bernard de Fallois è entrato nel mio romanzo».
Un’altra novità è che per la prima volta l’intreccio non è ambientato nel New England delle vacanze d’infanzia, ma a Ginevra, la sua città.
«Volevo farlo da tempo, e finalmente ci sono riuscito. I miei sono libri di fiction, e non riuscivo a lasciare libera l’immaginazione nel posto che conosco meglio, dove sono nato e cresciuto. Ero bloccato. Poi ho capito che non devo descrivere i luoghi, ma quello che evocano in me. Non è importante il lago, ma ciò che provo quando lo vedo. E per Ginevra io ho molta tenerezza, è una città che amo e che trovo molto bella».
Accanto a Bernard de Fallois anche Ginevra, romantica e malinconica, diventa un personaggio. Come lo accoglieranno i lettori, abituati a immaginare le sue storie nella costa Est degli Stati Uniti? Per quanto piacevole, Ginevra fa sognare meno di New York.
«Spero che leggeranno il libro con la stessa passione dei precedenti. Certo è diverso, ma io sono ancora un giovane scrittore, cerco di migliorare e progredire, non voglio restare fermo. Non penso a quel che devo scrivere per avere successo ma a quello che voglio scrivere. E sono curioso di vedere che succede quando l’ambientazione è legata a un immaginario meno potente. Tutti conoscono Manhattan, invece Ginevra richiede uno sforzo di immaginazione maggiore. Magari avrà una risonanza personale più forte, vedremo. In ogni caso dovevo provare».
Alcuni luoghi sono veri, altri inventati.
«L’Hôtel des Bergues, sul lago, è un albergo di lusso storico, ma il Palais di Verbier, dove si trova la camera 622 e dove si svolge larga parte dell’intreccio, è inventato. È Bernard che mi parlava di Verbier, una località sciistica; ci passava quando andava a trovare il suo amico Georges Simenon vicino a Losanna».
In questo romanzo molti personaggi sembrano tormentati dalla ricerca di identità, dal contrasto tra quel che la società si aspetta da loro e quel che vogliono veramente. C’è Macaire, erede designato e poi rinnegato della banca di famiglia, che si sente sempre inadeguato. Sua moglie Anastasia lo ha sposato facendo felice la madre, ma innamorata di un altro.
Perché questa ossessione per la vera natura delle persone, per la verità?
«Forse, a 35 anni, sto diventando adulto. Da un anno sono padre, e mi pongo la questione della trasmissione, dell’equilibrio tra la responsabilità di educare mio figlio e la paura di condizionarlo, di proiettare su di lui aspettative e desideri. È un dilemma che è sempre esistito, e che da qualche anno si arricchisce di una nuova dimensione: non solo siamo chiamati a fare quel che la famiglia e la società si aspettano da noi, ma anche quel che i nostri follower desiderano. I like sui social media sono un terzo lato della nostra vita».
Lei sembra poco affascinato dalla tecnologia nella vita quotidiana. Nel romanzo non ci sono messaggi WhatsApp, quando gli amanti vogliono vedersi in albergo o progettano di scappare insieme si fanno arrivare bigliettini nascosti in mazzi di fiori.
«Immagini la persona amata che non si presenta a un appuntamento: crea una tensione, un mistero. Ma basta che l’altro avvisi del contrattempo con un messaggio, ed è tutto finito. Io penso che Google sia il nemico di ogni scrittore: se io scrivo che il 19 gennaio a Ginevra ci fu un acquazzone, ci sarà qualcuno che andrà a controllare che tempo faceva a Ginevra il 19 gennaio. Le persone si bevono ogni genere di fake news, si fanno andare bene qualsiasi cosa vista su Facebook, ma poi usano Internet e Google per controllare di continuo una citazione o una data, magari durante una cena con gli amici. Google, o meglio l’uso che ne facciamo, uccide l’immaginazione».
Questo ha qualcosa a che vedere con la ricerca dell’identità?
«Certo. Prima parlavamo dell’eterna tensione tra ciò che la società si aspetta da noi e ciò che vogliamo davvero. Oggi c’è la terza dimensione, l’approvazione di sconosciuti sui social media. Se mi capita di vedere un tramonto, ecco l’istinto di fotografarlo. In sé non c’è niente di male, i telefonini oggi hanno obiettivi fantastici, le foto vengono benissimo, perché no. Il passaggio successivo è condividere quell’immagine, metterla su Instagram ma aggiungendo prima un filtro. Perché per quanto quel tramonto sia bello, non sarà mai bello abbastanza, bisogna comunque migliorarlo. Questo modo angosciato di rapportarsi al giudizio degli altri, questa necessità di ottenere l’approvazione di sconosciuti mi sembra una caratteristica inquietante della modernità».
Alla fine, accanto ai mille colpi di scena dei suoi romanzi, lei sembra molto preoccupato di cose profonde come la verità, la sincerità, la realtà, la profondità dei sentimenti. Uno dei suoi personaggi, Lev, non si presenta apposta a un appuntamento per accrescere il desiderio dell’amata Anastasia, e lo teorizza pure. Anche lui usa una specie di filtro.
«È una questione che mi affascina. Mi fa sorridere come siamo pronti a mentire per amore, come siamo inclini a dare un’immagine un po’ falsata di noi stessi. Quando una persona che ci interessa ci chiede che facciamo di solito la domenica, risponderemo che andiamo a vedere mostre, quando probabilmente restiamo a letto fino alle due a guardare la tv. È un gioco che fanno i miei personaggi, e che mi fa sorridere».
Lei si sta rivelando un moralista, Joël Dicker. Prende tutto sul serio, tutto è importante per lei.
«È così. Tutto è importante, le piccole cose effimere della vita quotidiana e gli enigmi di una camera d’albergo rispolverati dopo anni. Ogni momento andrebbe affrontato sapendo che alla fine il risultato siamo noi. Credo che il punto sia conoscersi meglio per accettarsi. Andare al nocciolo delle cose, non mentire né a sé né agli altri, senza arroganza e senza troppe finzioni».
Lei ha scritto questo libro prima dell’epidemia e del lockdown. Come ha influito il confinamento su questo bisogno di verità? In fondo, dopo mesi passati su Zoom, le persone sembrano di nuovo alla ricerca del contatto fisico, più reale e meno virtuale.
«Non so che cosa resterà di questo periodo unico nella storia del mondo. È vero che tutti smaniamo per vedere di nuovo gli amici dal vero, forse siamo stufi di tutti i filtri di cui parlavamo prima. Ma è anche vero che questi mesi sono stati molto virtuali: abbiamo visto serate musicali e sessioni di sport casalingo, ma la vera sofferenza negli ospedali e il dramma dei quanti stanno perdendo il lavoro si sono visti poco».
In questo contesto, perché scrivere e leggere un libro di quasi 600 pagine con un’atmosfera alla Agatha Christie? È un atto di resistenza contro i tempi dei social media?
«Credo davvero che la letteratura possa salvarci dall’abbrutimento. Il lettore conta quanto lo scrittore, è un atto creativo, ognuno ci mette la sua immaginazione e la lettura è ormai uno dei rari momenti in cui una persona può essere in pace con sé stessa, senza distrazioni. Non c’è bisogno di riservare tre ore al giorno ai libri, basta tenere un romanzo in tasca e dedicargli quei 15 minuti in coda alla posta o in attesa dal dentista, quel tempo che di solito si perde in scrolling nervosi sui social media. Tutti amano leggere, solo che alcuni ancora non lo sanno».