Se i robot arriveranno a rubarci il lavoro, che cosa faremo noi umani? E quando l’intelligenza artificiale avrà reso obsoleta quella umana, avremo ancora un ruolo nella catena produttiva? Preoccupazioni non così giustificate e neanche così nuove, sostiene il sociologo italiano Antonio A. Casilli, docente alla Télécom ParisTech di Parigi, in En attendant les robots (Seuil), approfondita inchiesta di 400 pagine sul «lavoro del clic».
«Aspettando i robot» sta avendo un notevole successo in Francia perché tratta da una prospettiva originale il tema alla moda dell’intelligenza artificiale. Lasciare credere che robot sempre più sofisticati si stiano sostituendo all’uomo è, secondo Casilli, una specie di truffa intellettuale. Le macchine non sono davvero intelligenti e il lavoro non sta scomparendo: si trasferisce, semmai, parcellizzato in micro-lavori pagati poco o nulla.
Dopo gli studi ottocenteschi di Thomas Mortimer, David Ricardo o Andrew Ure (traspare la formazione economica di Casilli laureato alla Bocconi) che già affrontavano gli effetti dell’automazione sul lavoro, il XX secolo ha conosciuto la disputa tra la visione di Alan Turing e quella di Ludwig Wittgenstein. Il primo giudicava che «gli uomini fossero delle macchine come le altre» e quindi credeva nella possibilità di produrre macchine intelligenti. Il secondo pensava l’opposto, e considerava che le macchine fossero in realtà solo «uomini che calcolano». Casilli parteggia per Wittgenstein.
Questo libro nasce come risposta alla retorica della fine del lavoro?
«Il saggio ha un po’ una doppia natura. Da un lato c’è la mia ricerca iniziata ormai più di 5 anni fa sulla nozione di digital labor, ovvero su come le piattaforme digitali sfruttino il lavoro più o meno consapevole degli utenti. Poi ci sono le ricerche più recenti sul machine learning. Cioè l’ immettere dati fino a quando non emerge una qualche regolarità. Su questo si basa per esempio il libro di Luc Julia L’intelligence artificielle n’existe pas, che si è diplomato anni fa da noi alla Télécom ParisTech. Un libro appena uscito del mio collega Jean-Louis Dessalles, Des intelligences très artificielles è complementare al mio lavoro: lui punta sul fatto che le intelligenze non sono poi così intelligenti, io dico che non sono poi così artificiali. C’è una scuola nuova che sta emergendo e mi fa piacere farne parte».
Rientra nel clima generale di riflusso anti internet e nuove tecnologie?
«Non credo sia legato a quello, mi sembrano fenomeni abbastanza scollegati. Se penso per esempio alla denuncia dello strapotere dei giganti di internet, la trovo slegata dal web di adesso, sono le cose che si dicevano vent’anni fa a proposito di Ibm o Microsoft. Quello che sta succedendo rispetto all’intelligenza artificiale è che ci siamo accorti che la trattiamo come se: a) esistesse già; b) fosse già sul mercato; c) ci fosse già un impatto sociale da considerare. Quello che mi interessa è come fisicamente vengono messi i dati là dentro, come si insegna alle macchine a fare quello che promettono di fare. La realtà è che le macchine attuali sono deboli e poco eccitanti, come soluzione e anche come prestazione».
Forse perché siamo ancora agli inizi?
«Diciamo la verità, non ci stanno nemmeno provando. Ci potrebbe essere un salto se qualcuno stesse davvero cercando di mettere in atto il programma scientifico dell’intelligenza artificiale di Mar- vin Minsky degli anni Sessanta: quello sì puntava davvero a una simulazione completa dei processi cognitivi umani. Oggi stiamo cercando di sviluppare quelle che vengono chiamate euristiche frugali, cioè soluzioni un po’ quick and dirty per fare finta che la macchina faccia qualcosa. Ma non necessariamente questa finzione viene ottenuta da un software, può essere fatta anche a mano».
E qui veniamo all’esempio di apertura del libro, la start-up che spaccia per intelligenza artificiale il frutto dei clic incessanti di un lavoratore sottopagato in Madagascar.
«Quello è un esempio che da una parte sono contento di avere citato, dall’altro è un po’ fuorviante perché poi ci vogliono 400 pagine per raddrizzare il tiro, per spiegare cioè che il problema non riguarda quattro truffatori ma è una questione strutturale. Esiste un sistema economico, politico, culturale, che crea credulità rispetto all’intelligenza artificiale. La realtà è che l’intelligenza artificiale è fatta da miliardi di persone che a volte sono micro-pagate e a volte non sono pagate per nulla. L’intelligenza artificiale si nutre anche del digital labor inconsapevole di tutti noi, che creiamo dati e quindi valore ogni volta che usiamo il nostro smartphone».
Lei fa l’esempio delle casse automatiche al supermercato. Il lavoro di passare gli articoli e di pagare non è scomparso, si è solo trasferito sui clienti.
«Il digital labor attuale, il lavoro degli utenti che devono creare valore per usare una piattaforma, è legato a queste forme già conosciute da decenni di lavoro del consumatore. Tutto quello che ha a che fare con i bancomat, le casse automatiche, i distributori automatici di biglietti in stazione, sono esempi classici di automazione che sostituisce il lavoro della persona di contatto, di interfaccia, per esempio tra il supermercato e il cliente. Questo lavoro non è sparito, è delegato ai consumatori che diventano i cassieri di sé stessi, i bigliettai di sé stessi. E resta la cassiera, che fa un lavoro di psicologa, si occupa di gestire la frustrazione del cliente che non riesce a pagare da solo».
Come definisce l’automazione?
«È una maniera di redistribuire i carichi di lavoro tra gli uomini. C’è un po’ di macchina, d’accordo, ma è quasi un pretesto. Quel che prima veniva fatto da un salariato viene delegato a 20 mila microlavoratori oppure, tramite bancomat o altri tipi di soluzioni tecnologiche, si distribuisce a consumatori-lavoratori».
Quando il candidato socialista all’ultima elezione presidenziale francese Benoît Hamon quindi parlava della «fine del lavoro» come nuova sfida per la sinistra, sbagliava bersaglio?
«Direi di sì. Il lavoro non sta finendo, sta diventando invisibile e i politici rischiano di non accorgersene. Il pervasive computing, l’internet delle cose, l’idea delle smart cities, dipendono dal lavoro invisibile anche mio, che cammino con uno smartphone in tasca e produco dati, o starò al volante della mia automobile autonoma che poi tanto autonoma non è. Una soluzione potrebbe essere che gli enti locali negozino con le piattaforme un accordo per decidere cosa si fa con questi dati, e quanto vengono pagati. Esistono sperimentazioni interessanti in Corea del Sud, in Bolivia o a Barcellona».
Per partecipare a questo evento e agli altri del festival registrarsi su www.galileofestival.it
*Intervista pubblicata su La Lettura del Corriere della Sera