C’è stato un momento, forse quello più drammatico per il futuro del Paese, nel quale qualcuno ha pensato che per fermare il Covid bisognasse chiudere le fabbriche. Una scelta che non è stata praticata in nessun altro paese al mondo e che è figlia della cultura anti industriale tipica dell’Italia. Perché, va detto, solo nel nostro Paese, gli imprenditori vengono chiamati prenditori, chi produce ricchezza viene saccheggiato e chi voleva lavorare in fabbriche “sicure” veniva dileggiato da comici che, in popolari trasmissioni televisive, li dipingevamo come degli affamati di denaro pronti a barattare la salute loro, dei loro collaboratori e dei cittadini, in cambio della ricchezza. Qualcuno, a proposito delle richieste di aprire le fabbriche scrisse addirittura che “tra la borsa e la vita” bisognava scegliere la vita.
C’è stata insomma una offensiva culturale contro le fabbriche, contro i lavoratori che sceglievano di produrre, contro gli imprenditori che avevano a cuore il futuro dei loro collaboratori e dell’azienda. Una offensiva che è stata accompagnata a quella, ormai tipica di un certo sindacalismo, secondo cui solo la grande fabbrica debba essere salvata. A suon di soldi pubblici o garanzie dello Stato. L’idea era quella, insomma, di trasformare le imprese in tante Alitalia. E le piccole e medie imprese che fallissero pure, perché, tanto li, né la politica né il sindacato, hanno nulla da guadagnare.
Ecco perché, soprattutto in un momento così difficile, nel quale il tema centrale per ogni imprenditore è cercare di gestire al meglio le difficoltà, bisogna trovare il coraggio e la forza per aprire, anche solo per una mezza giornata, le porte delle fabbriche. Bisogna far entrare i cittadini, le autorità, i deputati, i senatori, i ministri, i capi di partito, le famiglie dei dipendenti e dei collaboratori, per far vedere dal vivo innanzitutto che le fabbriche sono luoghi sicuri, e che a nessuno dovrà più venire in mente di poterle chiudere. E per spiegare che sono luoghi dove si produce la ricchezza che viene poi redistribuita, che con quei soldi prodotti nelle fabbriche si pagano sanità, istruzione, pensioni.
Sappiamo che le difficoltà in questo momento per le imprese sono tante. Ma bisogna dare segnali chiari all’esterno e alla comunità. Altrimenti, alla prossima pandemia, torneranno a farci chiudere. Altrimenti, alla prossima difficoltà di bilancio, qualcuno penserà che basterà aumentare un po’ le tasse a chi produce e non a tagliare gli stipendi a chi svolge attività improduttive e nemmeno può essere messo in cassa integrazione.
Per questo vi chiediamo di partecipare ed essere protagonisti di Open Factory, la manifestazione che l’ultima domenica pomeriggio di novembre, aprirà le porte delle aziende. Per dare un segnale al Paese che, come non ci arrendiamo sui mercati, non ci arrendiamo nemmeno alla vulgata anti industriale che ha travolto questo nostro Paese.