Camminare, osservare, scrivere. Tre verbi che richiedono tempi giusti, equilibrati, preparati. A maggior ragione se si susseguono. Non puoi camminare veloce se vuoi scoprire. Non puoi osservare di fretta se vuoi conoscere. Non puoi scrivere bene se non hai pazienza. “La teoria dei paesi vuoti” impasta questi tre verbi. Lo fa in contesti abbandonati, tralasciati, dimenticati.
Mauro Daltin percorre sentieri per arrivarci, strade per attraversarli, altezze per raggiungerli. Luoghi non più abitati perché la natura se li è ripresi o perché l’uomo ha deciso di cancellarli: Portis, Craco, Palcoda, Famagosta, Consonno, Curon…Terremoti, incendi, frane o invasi hanno separato le case dagli uomini, i mattoni dagli affetti. Uno spazio non abitato mantiene ricordi solo in chi ci ha vissuto. Il resto è tutto cristallizzato, fermo, incarcerato. Daltin stacca dai muri pezzi di storia dell’abbandono.
Va alla ricerca dei perché ma soprattutto prova a liberare quei paesi dai fantasmi, gli unici abitanti autorizzati a viverci. Un percorso che sembrerebbe inutile, senza un fine logico. Cosa dobbiamo imparare dai luoghi-non-luoghi? In realtà ogni paese abbandonato nel suo perché contiene un monito per il nostro presente e futuro. La storia è piena di errori che si ripetono. E nonostante le apocalissi, l’uomo è sempre pronto a riprogettare il buio. I paesi scomparsi sono un monito, un’indirizzo che ci indica dove non svoltare. Anche per questo il recupero della memoria non è un mero esercizio nostalgico. Un libro poetico, estetico, perfino – a tratti – spirituale. “La teoria dei paesi vuoti” è un esercizio che mette a confronto quello che siamo e quello che osserviamo.