L’ultimo vertice franco-tedesco passato alla storia europea era stato una passeggiata lungo una spiaggia della Normandia, a Deauville, nell’ottobre del 2010. Quel pomeriggio Angela Merkel convinse l’inquilino dell’Eliseo di allora, Nicolas Sarkozy, a una linea comune sulla crisi partita dalla Grecia. Era un approccio antitetico a quello sul quale Berlino e Parigi si sono accordati lunedì.
A Deauville la cancelliera pensava che la soluzione fosse imporre un default e sospendere i diritti di voto nel Consiglio dell’Unione europea dei governi più in difficoltà nel finanziarsi.
Sono passati quasi dieci anni, la cancelliera tedesca è la stessa, la sua direzione di marcia è opposta. Lunedì con il presidente francese di oggi, Emmanuel Macron, ha proposto un’emissione di bond comuni da 500 miliardi di euro. La Commissione Ue si indebiterebbe sui mercati per distribuire ai Paesi più colpiti da Covid-19 risorse da spendere in investimenti nell’ambiente, nel digitale e in altri settori strategici.
Si avverte la parabola di una leader ormai preoccupata più di conquistare una pagina nei libri di Storia che un’altra vittoria elettorale. Si intravede anche la nuova insicurezza tedesca: entrata in questa crisi già sull’orlo di una recessione, la Germania sa di non poterne uscire a colpi di export verso Paesi lontani in questo mondo divenuto più ostile. A Berlino è ormai chiara la scelta strategica di compattare l’Europa, evitando al massimo le tensioni. I paletti posti dalla Corte di Karlsruhe alla Banca centrale europea hanno accelerato tutto, convincendo Merkel che tocca a lei assumersi più responsabilità finanziarie per stabilizzare l’area euro. La minaccia delle agenzie di rating che inizia a lambire anche la Francia ha fatto il resto. Rimane da capire come avverrà la messa in musica e come essa intersechi la traiettoria del Paese più importante da salvare, l’Italia.
Olanda, Austria, Danimarca e Svezia continueranno a opporsi all’idea franco-tedesca, per il momento. Italia, Spagna, Portogallo continueranno a chiedere di più — in tacita intesa con Parigi — sapendo che il punto di caduta alla fine non potrà che essere nel mezzo. Vicino a dove Merkel e Macron lo hanno indicato, una volta fatta qualche concessione all’Aia sui rimborsi di parte dei suoi contributi al bilancio di Bruxelles.
Più interessante è la deliberata vaghezza del presidente francese su un dettaglio essenziale: cosa c’è dietro il nuovo debito europeo, chi lo finanzia e come. Lunedì Macron si è limitato a dire che il denaro «può essere rimborsato dagli Stati membri, da contributi su cui potremmo scegliere di decidere più avanti o da un altro meccanismo». Tutto è in divenire. Ma gli indizi che la Germania e la Francia stiano riflettendo a nuove forme di tassazione europea — non più solo nazionale — sono ovunque. Dietro l’idea di un debito comune della Commissione c’è quella di entrate comuni europee: è l’embrione di un’entità statuale che tassi e spenda e sia soggetta a un proprio parlamento, a Strasburgo. Ieri a Die Zeit Olaf Scholz, il ministro delle Finanze di Berlino, ha richiamato l’esempio di Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro americano che nel 1790 caricò sulla federazione i debiti contratti dagli Stati nella guerra d’indipendenza. «Mise insieme poteri di raccolta delle entrate e di indebitamento del governo centrale», ha detto. Socialdemocratico, Scholz su questo terreno si muove più a suo agio da quando i nuovi leader del suo partito, Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans, hanno espresso un’apertura.
In una riunione di nove ore, Scholz avrebbe avuto il permesso di Merkel a lavorare all’idea di tasse europee per finanziare quel che di fatto è un eurobond. Le impronte di quest’idea di prelievi fiscali da trasferire dal livello nazionale alle «risorse proprie» di Bruxelles (in base all’articolo 311 del Trattato) sono visibili nel documento franco-tedesco di lunedì: vi si parla di un «Emission Trading Scheme» (le aziende pagano per quanto inquinano) da ampliare potenzialmente a aviazione e nautica; si fa riferimento alle tasse da far pagare ai colossi digitali e a una tassa societaria minima europea, in contrasto ai paradisi fiscali di Olanda o Irlanda; si richiama l’unione dei mercati dei capitali, che implica prelievi comuni dei profitti sugli investimenti. La strada resta da percorrere, ma è aperta. Per l’Italia significa più risorse europee per investimenti pubblici — potenzialmente il 50% in più quest’anno e un raddoppio in ciascuno dei prossimi due — unite a più controlli di Bruxelles su un principio di fondo: se vuole ricevere i trasferimenti di bilancio, il Paese deve mettersi in grado di spenderli con più efficienza. Oppure rinuncia a tutto, in piena autonomia, e resta quello che è.