Per fronteggiare la crisi, lo Stato ha predisposto una pletora di interventi che lo porterà a giocare un ruolo importante nella vita delle imprese; come creditore e garante si troverà a gestire ristrutturazioni (molte crisi di liquidità diventeranno insolvenze), decidere a chi, come e a quali condizioni fornire capitale, e dove esercitare i poteri del golden power .
Un ritorno in grande stile dello Stato imprenditore, che pure non se n’era mai andato. Stato ed Enti locali sono già il principale azionista a Piazza Affari, con partecipazioni in società che valgono un terzo della capitalizzazione totale (45% escludendo i finanziari), senza contare le non quotate che operano in concorrenza sul mercato come Alitalia, Ilva, Fs Italiane, Anas, Sea Aeroporti. Una presenza pervasiva destinata ad aumentare.
L’intervento pubblico è giustificato dall’emergenza, ma avviene in modo scoordinato senza una strategia chiaramente definita, frutto di compromessi e convenienze della politica. Dovrebbe essere limitato nel tempo, volto ad aiutare le imprese a superare la crisi e sostenerne l’eventuale ristrutturazione e il rilancio, per poi uscire, magari guadagnandoci (come l’amministrazione Obama con auto, banche e assicurazioni). Ma evitando di prolungare l’agonia di quelle prive di prospettive, non è una questione ideologica: tutte le risorse che lo Stato investe sono prese a prestito dagli altri Paesi tramite Commissione, Bce e Mes, oltre che dagli investitori privati in Btp e risparmio postale. Prima o poi ne dovrà rendere conto.
L’efficienza dell’apparto statale nel gestire l’emergenza sanitaria e il lungo elenco di dissesti che l’intervento pubblico non è mai riuscito a risolvere (come non ricordare Alitalia, Mps e i mille “tavoli di crisi” del Mise) non fanno ben sperare. Senza una chiara prospettiva, la maggiore presenza dello Stato rischia di diventare irreversibile, col rischio di pregiudicare ulteriormente la nostra capacità di crescita.
Tipicamente vengono proposti due modelli per lo Stato imprenditore: ma, o non sono rilevanti per noi, o potenzialmente dannosi.
Il primo, vedi Mazzuccato su queste colonne, è la collaborazione pubblico/privato nell’industria tecnologica Usa. Qui il ruolo dello Stato è stato essenziale nella ricerca e sviluppo alla base di tante le applicazioni dell’industria avanzata (Internet, supercomputing , gps, metalli speciali, Ai), ma con il chiaro obiettivo di supremazia militare. Basti ricordare che il precursore di Internet (Arpanet) è stato sviluppato per costruire un sistema di comunicazione a rete in grado di funzionare anche in caso di un attacco nucleare. O il ruolo fondamentale del gps in tutti i sistemi di difesa. O l’impulso che l’anti terrorismo ha dato ad Ai e supercomputing. La ricerca finalizzata alla supremazia militare che genera innovazione per uso civile, ha origine con la Seconda guerra mondiale (antibiotici, trasfusioni di plasma, energia nucleare, microonde, aerei a reazione, e molti altri) e continua con la guerra fredda.
Ma lo Stato non interviene in alcun modo nello sviluppo delle applicazioni civili, lasciata alla libera iniziativa e ricerca del profitto dei privati. Né detiene partecipazioni anche nella più strategica delle industrie come quella militare. Un modello che la Cina ha copiato (profitti ai privati da tecnologie cruciali per la difesa) avendo lo stesso obiettivo di predominio militare. Per l’Italia, semplicemente improponibile.
Il secondo è un revival della politica industriale postbellica.
Ma allora c’erano tre chiare esigenze: dotare l’Italia di una rete integrata per la mobilità e i servizi di pubblica utilità (autostrade, aeroporti, rete telefonica, rete elettrica, Alitalia, linee di navigazione); riconvertire l’industria bellica (come Breda e Ansaldo); e dotare l’Italia dei materiali di base per lo sviluppo dell’industria manifatturiera (acciaio, petrolio, raffinerie, cemento, chimica). In quel momento i capitali non potevano che venire dallo Stato. Che però è rimasto azionista di quelle società anche 50 anni dopo che si era esaurita la fase della ricostruzione, spesso trasformando la partecipazione pubblica in un inefficiente sussidio all’occupazione, che ha solo prolungato l’agonia di molte aziende. Ispirarsi oggi a quel tipo di politica industriale è, nella migliore delle ipotesi, una costosa nostalgia di dirigismo; nella peggiore, una moltiplicazione delle poltrone.
L’Europa benedice lo Stato imprenditore sospendendo le norme sugli aiuti di stato e la concorrenza, e ammettendo che si ergano barriere ai movimenti di capitale infra-europei (Stato azionista e golden power, sono la più formidabile delle barriere); dando in questo modo un colpo di piccone al progetto originale del mercato unico.
Nei fatti si scoraggiano le aggregazioni e ristrutturazioni nell’Eurozona che invece sarebbero indispensabili per competere efficacemente con le imprese di Usa e Cina; né si capisce in questo contesto in cosa consista veramente il Green Deal della von der Leyen. Per l’Italia, un altro passo verso la decrescita infelice.