Élite è parola francese che deriva dal femminile sostantivato di élit, antico participio passato di élire ovvero «scegliere». Secondo l’Enciclopedia Treccani per élite si intende «l’insieme delle persone considerate le più colte e autorevoli in un determinato gruppo sociale, e dotate quindi di maggiore prestigio».
[…] Ciò premesso, è necessario preliminarmente interrogarci sulla diffusa sfiducia popolare che si è via via accumulata negli anni più recenti nei confronti delle persone che, proprio in quanto competenti ed esperte, sono ritenute maggiormente compromesse con interessi particolari, pregiudizialmente ritenuti opposti al bene di tutti. Diremo poi delle cause che hanno interessato l’intero Occidente – e in particolare l’area europea – ma è necessario preliminarmente considerare le specifiche anomalie che hanno reso l’Italia una nazione più fragile e più esposta ai pericoli del declino. Si può infatti ritenere che all’origine della delegittimazione delle nostre élite si collochi il passaggio dalla sana, anche dura ma leale, competizione all’interno di esse alla conflittualità esasperata che ha alimentato e incoraggiato la terribile combinazione tra il potere mediatico e quello giudiziario dai primi anni novanta. […] Lo scontro fu così aspro e devastante che coinvolse tutto il nostro circoscritto grande capitalismo, pubblico e privato, anche se in esso poterono meglio difendersi coloro che detenevano il controllo di mezzi di informazione. L’impresa in quanto tale cominciò a essere considerata luogo potenziale di illeciti profitti.
[…] Su questo sedimento traumatico hanno potuto agire le altre concause della separazione tra popolo ed élite che hanno investito l’intero Occidente. Già la terza rivoluzione tecnologica (informatica) ha alimentato un nuovo «razionalismo» nel contesto di società progressivamente indebolite dal benessere e dal connesso declino demografico. L’illusione di sostituire la vitalità reale, che in passato era stata consentita da intense coorti giovanili, con quella virtuale della finanza «creativa» garantita da algoritmi razionalissimi si è tradotta nell’esplosione della massa monetaria, nella moltiplicazione del debito pubblico e privato che oggi ammonta a ben sette volte la ricchezza globale, nelle prime manifestazioni di instabilità che hanno leso il circolo della fiducia. La finanziarizzazione esasperata ha generato quella «economia incivile» che è parsa rivolgersi contro le persone e le comunità.
La quarta rivoluzione tecnologica e il contestuale processo di globalizzazione sregolata hanno infine concorso a dare l’ultima spallata alla credibilità delle élite politiche, tecniche, manageriali. Il ceto politico, ove più ove meno, è parso sempre più imprigionarsi nel presente risultando perciò incapace di analizzare per tempo i cambiamenti così da essere in grado di governarli. E ciò tanto più è accaduto nelle dimensioni sovranazionali. Le vecchie regole del commercio globale sono state disegnate in un tempo di sviluppo progressivo e graduale delle nazioni, quando era ipotizzabile un’analoga, parallela, progressività dell’evoluzione istituzionale e sociale. Il salto tecnologico ora consente incredibili accelerazioni dello sviluppo economico mentre welfare e democrazia rimangono primordiali consentendo una concorrenza sleale. Nuovi player multinazionali, con vocazione monopolistica, intercettano le grandi opportunità indotte dall’intelligenza artificiale e gli Stati appaiono incapaci di rincorrerli con regole e tasse tradizionalmente ancorate ai confini territoriali.
Vi è di più: mentre i governi e le istituzioni sovranazionali appaiono incapaci di impedire la polarizzazione del potere economico su queste poche compagnie, nella dimensione interna agli Stati o all’Unione europea si pretendono rigorose regole di mercato e si sanzionano le piccole concentrazioni. I guadagni di grandi azionisti e top manager superano poi di infinite volte le proporzioni del passato risultando incompresi e conducendo a campagne di pauperismo. Vengono decantate le progressive sorti delle nuove tecnologie ma molti governi risultano incapaci di gestire la transizione professionale di moltitudini di lavoratori perché prigionieri dei vecchi sistemi educativi e formativi e delle relative corporazioni. Si insinua il dubbio di un futuro con meno lavoro e si produce la trappola dell’esclusione permanente grazie a sussidi destinati a diventare costanti. Più ancora delle disuguaglianze assolute pesano gli impoverimenti relativi e soprattutto il blocco dell’ascensore sociale che toglie ogni speranza di riscatto.
A ciò si deve aggiungere, ultimo ma non ultimo argomento, la disinformazione veloce nella rete. Da tempo le fonti informali della conoscenza prevalgono su quelle formali come le scuole e le università. Si rincorrono con le forbici della censura le fake news ma non si investe in quell’educazione morale che darebbe alle persone gli strumenti per distinguere il bene dal male. Il risultato è perfino il rifiuto della «oggettività» scientifica, inclusa quella medica e farmacologica. […] L’insicurezza è peraltro estesa e riguarda l’incolumità personale, il lavoro, il risparmio, la salute, il clima, la stabilità idrogeologica. E nel Mezzogiorno si esalta a causa di un declino che le politiche tecnocratiche e moderniste hanno accelerato concentrando tutta la loro azione sui soli punti forti dell’economia nazionale. L’insicurezza è così pervasiva da generare bisogno di spiegazioni, di colpevoli, di «untori» sui quali riversare rancore. E le tradizionali classi dirigenti appaiono corrispondere a questo bisogno con il risultato di una loro larga delegittimazione. Mai come ora è quindi necessario che si formino, attraverso una pluralità di canali, nuove o rinnovate élite capaci di parlare al cuore e alla ragione delle persone. Attraverso fatti coraggiosi e perciò convincenti.
Particolarmente emblematica è la questione dell’invasione migratoria. Ampiamente sottovalutata o imprevista, ha fatto registrare il fallimento politico dell’Unione che non ha mai saputo promuovere lo sviluppo del vicino continente africano a partire dai paesi della sponda sud del Mediterraneo. […] Soprattutto le componenti più fragili della società hanno manifestato sentimenti di paura e di insicurezza che molte élite metropolitane hanno rifiutato di comprendere ed hanno anzi stigmatizzato dall’alto delle loro protezioni.
[…] L’Italia, secondo il premio Nobel Edmund Phelps, ha conosciuto una straordinaria indigenous innovation fino al 1993. Essa è stata fonte di significativi tassi di crescita fino a quella data, mentre nell’epoca successiva i livelli di sviluppo sono stati modesti o nulli. […] Il risveglio dell’attitudine al pensiero lungo, della propensione al rischio nell’impresa e nel risparmio, dell’efficienza pubblica si potrà generare solo da una politica fortemente orientata dall’antropologia positiva. Il riequilibrio tra i poteri costituzionali, una giustizia giusta e certa, la semplificazione della regolazione degli investimenti, la rivoluzione educativa, le relazioni di lavoro in prossimità, la legittimazione di élite plurali e ancorate al senso comune del popolo sono gli strumenti del possibile ritorno, in modi riveduti e corretti, agli anni migliori della vita della Repubblica, quando uscimmo dalla povertà e dalla sconfitta sentendoci vitali e uniti da un destino comune.