Una parola magica, «liquidità», è stata molto usata in questi giorni. La liquidità da garantire alle imprese per non chiudere, per pensare di poter tornare, se non alla normale a una decente attività. Un impegno forte da parte del governo, testimoniato da quella cifra monstre, 400 miliardi, comparabile con quella di altri Paesi ben più possenti di noi in Europa e nel mondo.
M a come spesso accaduto in passato, in Italia a far difetto non è mai l’obiettivo che a parole si indica, piuttosto il come arrivarci. E questa volta non è stato l’impegno dei singoli a venire meno come accaduto in altre occasioni. A frenare è stato un malinteso e alcuni mali storici.
La chiamano liquidità, ma per le imprese ha un nome più inquietante: debito. Che si tratti dei 25 mila euro garantiti interamente dallo Stato o degli altri scaglioni fino a 800 mila euro e oltre, in ogni caso sono soldi che le aziende dovranno restituire. Che si tratti di un bar fermo ormai da settimane o di una piccola impresa manifatturiera pronta a ripartire o che non si è mai fermata completamente, le domande sono le stesse. Avrò ancora i miei clienti? Sarò pagato e riuscirò a pagare i miei fornitori? A queste si aggiunge: saprò risarcire il mio nuovo debito? E per di più in una situazione che non si sa quanto potrà durare.
Si poteva scegliere una strada che prevedesse, se non per tutte, per alcune tipologie di aziende dei contributi a fondo perduto? Dei trasferimenti diretti? Sì, si sarebbe dovuto fare quello che l’Italia ha chiesto all’Europa al vertice di giovedì scorso. Vale a dire una garanzia dell’Europa ai prestiti, ma anche fondi da usare senza che se ne preveda la restituzione. Fondi per investimenti utili a riavviare un’economia di crescita. Magari con richieste tramite autocertificazione della perdita di fatturato subita. Una strada seguita da Paesi come Germania e Svizzera, che sarebbe stata quella scossa e una testimonianza di fiducia nei confronti delle imprese che troppo spesso da noi è mancata.
Ma l’Italia avrebbe potuto e può farlo? Sì, se si avrà il coraggio di non usare una logica ordinaria in una situazione straordinaria. Il Paese intero si è dovuto fermare, l’intera economia, tranne poche eccezioni, si è di fatto bloccata. Ma soltanto ora inizia a farsi strada nel governo, come indicato ieri dal ministro Roberto Gualtieri, l’ipotesi di destinare risorse dirette alle aziende medio-piccole. Va in questa direzione il richiamo della Banca d’Italia che ha sottolineato l’importanza di attivare trasferimenti e non debiti che si risolverebbero in un’insolvenza generalizzata.
Farlo significherà per l’Italia indebitarsi ancora di più di quanto stiamo facendo. I Paesi che sono riusciti a fare arrivare soldi immediati sui conti correnti degli imprenditori avevano la possibilità, lo spazio per poter chiedere soldi in prestito. Noi quello spazio ce lo siamo giocati in passato. Purtroppo sono rimasti inascoltati gli appelli in questi anni di quanti hanno sottolineato che la battaglia contro il debito pubblico, uno dei nostri mali storici, avrebbe dovuto essere il primo impegno negli anni grassi, per quanto pochi siano stati in questo millennio.
Ma ora la priorità è un’altra: far ripartire il Paese e solo le imprese possono esserne il motore. Tanto più che anche quella liquidità (a debito) fa fatica ad arrivare alle imprese. Eccole altre zavorre che ci portiamo dietro: formalismi e burocrazia. Il decreto è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale lo scorso 8 aprile. Solo ieri è arrivato uno dei primi finanziamenti nell’ambito di Garanzia Italia della Sace, quelli di maggiore entità e riservati alle imprese più grandi. C’è da sperare che non sia un’eccezione.
I famosi 25 mila euro garantiti dallo Stato al 100% si stanno perdendo man mano tra documenti e domande impossibili come documentato da Dario Di Vico sul «Corriere» dello scorso 20 aprile. Basterebbe il numero di pagine del provvedimento con gli adempimenti previsti per far capire che in quanto a complicazioni non siamo secondi a nessuno: otto, più un’altra ventina per potere avviare in concreto i procedimenti. E tutto questo per aziende e imprenditori che molto spesso stanno comprando solo tempo. Tempo per capire come reagire a una crisi che da sanitaria non può e non deve diventare anche economica e sociale.