Marco e Matteo Mantellassi producono a Montemurlo, Prato, tessuti che l’universo del lusso ci invidia e, perciò, ci compra. Valter Brasso ha fondato a Torino quella che in pochi anni è diventata una multinazionale tascabile del migliore hi tech ingegneristico italiano. Alberto Nicolini guida un piccolo (per ora) polo del packaging che lavora su tre fabbriche: una è a Guardamiglio, provincia di Lodi, cento metri appena dalle barriere d’isolamento della prima Zona Rossa da coronavirus nazionale. Eppure anche lì: si gestisce l’urgenza, si programma la ripartenza.
Lezioni dalla Red Zone
I Mantellassi, Brasso, Nicolini non fanno solo mestieri diversi, con problemi diversi. Non si conoscono proprio. Usano però le stesse identiche parole, per sintetizzare l’emergenza medico-sanitaria che, da noi, è già anche emergenza economica da recessione assicurata. Soltanto negli ultimi vent’anni, ricordano, abbiamo vissuto l’11 settembre, la Sars, la Grande Recessione. Ogni volta abbiamo pensato che il mondo sarebbe crollato, e ogni volta ci siamo rialzati. Per quale ragione non dovremmo ripeterci? «Le forze per farlo, nonostante tutto, il Paese le ha».
Probabile obiezione numero uno: è ottimismo di maniera. Possibile obiezione numero due: Mantellassi, Brasso, Nicolini possono permettersi di parlare così perché le rispettive aziende — Manteco, Teoresi, Castagna-Univel — hanno bilanci record. È vero, in parte. In effetti le loro imprese sono tra i mille Champions dell’analisi 2020 de L’Economia e ItalyPost. Ma non è che questo le salvi dal pagare un conto salato al Covid-19. E c’è comunque qualcosa, nei racconti dell’essere «campioni» ai tempi del Coronavirus, che in fondo vale persino per chi in questi giorni vede molto da vicino il rischio chiusura.
Per dire. La fabbrica Castagna-Univel di Guardamiglio sta ai confini della Red Zone. Una trentina dei suoi 70 dipendenti vive nell’area di Codogno ed è, dunque, in auto-isolamento. Nicolini, l’amministratore delegato del gruppo (48,2 milioni di fatturato e 3,7 di utili ante imposte nel 2019), racconta così il weekend del 21-23 febbraio, quando l’emergenza è scoppiata: «Abbiamo chiamato tutti, spiegato quali precauzioni avremmo preso, cercato di esorcizzare la paura. Lunedì 24, alla riapertura, all’appello non mancava nessuno». Tranne, chiaramente, chi era bloccato in Zona Rossa. La metà dei dipendenti. «Significa che da due turni siamo passati obbligatoriamente a uno. Non avremmo potuto soddisfare gli ordini se chi può lavorare non avesse accettato di farlo anche il sabato e la domenica, e se non avessimo spostato quel che potevamo a Vercelli e Mortara». Adesso? «Gli impianti sono saturi. Se la Zona Rossa non riapre, con gli ordini non ce la faremo. Finora non abbiamo avuto cancellazioni, nonostante qualche telefonata antipatica da pochi clienti del Nord-Europa, ma è chiaro che in tanti ci pressano: “Ce la fate a consegnare o dobbiamo cambiare fornitore?».
Il problema non è la domanda nemmeno a Montemurlo, otto chilometri dalla Prato capitale della produzione cinese in Italia. La Manteco esporta ovunque tessuti che sono in sé il sinonimo dell’altissima qualità tessile nazionale. Non c’è brand del lusso-moda che non vada a rifornirsi lì: oggi il gruppo è un Champion da 91 milioni di fatturato (erano 80 nel 2018, solo 30 nel 2012) e oltre 13 di utili netti. Situazione finanziaria invidiabile, come in Castagna-Univel, e insomma: spalle buone a reggere lo stop e preparare il «go». Però, ai tempi del coronavirus, la questione è quella che Marco Mantellassi riassume così: «La maggior parte dei nostri clienti ha tra i suoi principali mercati da un lato la Cina, dove tutto è cominciato, e dall’altro gli Stati Uniti, dove tutto sembra sottotraccia ma che ora sono il vero, grande punto interrogativo nascosto dietro l’assenza di un sistema sanitario pubblico».
Immagine Italia
Già basterebbe, a mettere in conto quantomeno un rallentamento. Aggiungiamoci un carico: da quando il virus è esploso anche in Italia, all’estero nessuno pensa che noi l’abbiamo trovato perché l’abbiamo prima cercato e poi comunicato (male), mentre il resto d’Europa (e del mondo) si rifugiava nella voce «picco influenzale». Il risultato è che ci siamo ritrovati con una serie di frontiere di fatto chiuse, oltre che con gli aeroporti del Nord banditi da un numero crescente di compagnie aeree. Per imprese che, come Manteco, vivono di export, l’effetto è lo stesso raccontato da Mantellassi: «Negli anni abbiamo investito moltissimo in Information Technology e passare allo smart working senza interrompere la produzione non è stato complicato. Ma i clienti vogliono essere rassicurati. Vogliono vedere le nuove collezioni. Lo puoi fare in videoconferenza? Non è la stessa cosa. Possono venire da noi, come facevano fino a ieri? No: preferiscono non correre rischi. Possiamo andare noi da loro, come sempre? Di nuovo: no».
«No» perché si rischia di essere bloccati ai confini. Peggio. Valter Brasso ha appena annullato tre voli per gli States. Là Teoresi — sette milioni di ricavi nel 2012, oltre 47 con utili netti attorno al 10% nel 2019 — ha una delle sue basi estere. Sennonché, dal Michigan alla Germania, «le nostre sedi ci dicono: “Non venite, qui vedono gli italiani come quelli che hanno diffuso il virus”». Era prima che la Cnn mandasse in onda la famosa mappa, sbagliata e offensiva: «Ma il clima era già quello. Il modo in cui il Paese ha gestito la comunicazione si è rivelato un boomerang, i danni d’immagine saranno pesantissimi». Lo saranno, di conseguenza, anche quelli economici. Nel caso dell’azienda torinese significa che le risorse accumulate reinvestendo gli utili, sempre, non andranno alle acquisizioni immaginate per il 2020: «Erano fondi destinati allo sviluppo, dovremo cominciare a usarli per gestire la crisi». Senza drammatizzare troppo, però. «Questa situazione mi ricorda l’11 settembre. Anche allora si fermò tutto, anche allora sembrò non ci fosse un domani, anche allora furono le aziende che non smisero di investire a far ripartire l’Italia». Scommettiamo?
*L’Economia, 9 marzo 2020