Io abito a qualche decina di chilometri da Vo’ Euganeo. La località veneta dove si è rivelato il coronavirus. E ha colpito maggiormente. Una “zona rossa”, più che “arancione”. Anche se, qualche tempo fa, era definita con un colore diverso. “Bianca”. Politicamente: fedele alla Dc.
Divenuta, in seguito, “verde”. Vicina alla Lega. Ma oggi quei colori servono a poco. Perché, più della politica, conta la salute. Più della Dc, di FI e della Lega, conta il covid. Il virus che, ormai, si è diffuso.
Ovunque. E semina “paura”. Ovunque.
Anche se la “paura” ci fa compagnia, ormai, da molto tempo. Perché viviamo nel “tempo della paura”. Da “molto tempo”. Da quando i virus erano un problema limitato. Lo sappiamo bene. Non c’è bisogno di ricorrere a cifre e a sondaggi, per saperlo. Anche, se da oltre un decennio (per la precisione: da 13 anni), dirigo un Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (condotto da Demos-Fondazione Unipolis). Ma sarebbe meglio definirlo diversamente: Osservatorio sulla In-Sicurezza. La questione che ne ha fatto uno strumento interessante per molti ricercatori, operatori, analisti. Perché l’in-Sicurezza, l’in-Certezza, ci accompagnano da molti anni.
Probabilmente, da sempre. Ma, da qualche tempo, sono divenute sempre più importanti, per spiegare gli atteggiamenti e i comportamenti personali e sociali. E le scelte: sul piano politico e mediatico.
Sul piano politico: è ormai da vent’anni, forse più, che “le paure” sono divenute tema ricorrente, decisivo, nelle campagne elettorali. Cioè, sempre, perché viviamo in epoca di “campagna elettorale permanente”. La paura e le paure: coinvolgono diversi ambiti e diversi fronti. L’economia, la criminalità, l’instabilità economica. Infine: le “minacce globali”, che hanno sempre avuto grande spazio nella nostra vita. Tre italiani su quattro, infatti, (come emerge dall’indagine più recente di Demos-Fond.Unipolis, condotta in gennaio, “prima” del covid) riassumono le proprie paure nella categoria dell’insicurezza “globale”. Che comprende fenomeni ed eventi molto diversi. I disastri e i cambiamenti naturali, l’in-sicurezza dei cibi, le guerre e il terrorismo, le crisi finanziarie.
Infine: le epidemie. Minacce eterogenee, difficili da accomunare. Se non per un aspetto. L’impossibilità di circoscriverne i confini. Sicuramente, di de-limitarne l’ampiezza e, dunque, il controllo, a una località, una Regione. Un Paese. Il nostro Paese. Com’è avvenuto e sta avvenendo per il covid. Che si è manifestato in Lombardia e in Veneto, nell’ultimo mese. Ma era stato conosciuto e aveva già prodotto effetti devastanti altrove. Ben lontano da noi. In Cina, anzitutto. Perché i virus non possono venire fermati alle frontiere. Non debbono esibire passaporti. Oggi, infatti, si è diffuso anche oltre i nostri confini. Oltre l’Italia. E oltre l’Europa. Il covid: è un virus globale. E per questo spaventa molto di più. Perché è fra noi, intorno a noi. E perché non ha confini. È globale. Non riusciamo a de-limitarlo. Tuttavia, come ho già detto, noi viviamo, da tempo, in un clima di paure. Che cambiano, di volta in volta. Per ragioni di opportunità politica. Fino a ieri, le paure agitate da alcune parti politiche erano riferite, soprattutto, agli “altri”. Gli stranieri. Gli immigrati. Coloro che arrivavano, soprattutto, dall’Africa. Spinti dalla disperazione. Sempre. Trasportati, talora, dai “mercanti della disperazione”. Che ne sfruttano la condizione. “Imprenditori politici della paura” e “mercanti della disperazione”. Da non confondere con le associazioni volontarie, che cercano di dare risposta e offrire soccorso alla disperazione stessa.
Tuttavia, noi ci stiamo progressivamente abituando alle “paure”. Perché fanno spettacolo.
Audience. Ormai, sui media e, soprattutto, nei programmi tv, le tragedie personali, le storie di persone scomparse, gli omicidi irrisolti oppure risolti, ma terribili, sono dovunque. In ogni canale.
A ogni ora. Ma, soprattutto, nelle fasce di maggiore ascolto. Perché le paure fanno audience. Fanno spettacolo. Come le risse e le aggressioni. Verbali. E non solo. L’Osservatorio di Pavia ha sempre “osservato” l’evolvere di questo fenomeno, sui media. Di-mostrando come le prime pagine dei giornali e i tg più seguiti siano, in larga parte e sempre più, affollati di notizie “ansiogene”. Cattive notizie, buone per i media. Perché, evidentemente, riflettono una “diffusione” di eventi “realmente diffusa”. Ma anche perché fanno ascolti. E attirano l’attenzione del pubblico.
La Rete ha, a sua volta, contribuito a questa tendenza. In modo esponenziale. Perché agisce senza filtri. E tutti possono accedervi. Senza controlli. AnIlvo zi, la ricerca di evidenza e condivisioni spinge a superare i limiti.
Così, la paura è entrata nella nostra vita. Nel nostro mondo. Molto prima che irrompesse il covid. E si incrociasse con il Pavid. Il “Pauravirus”. La “paura della paura”: fa meno paura. Perché è dovunque.
Non è più una novità. E perché la minaccia non ha più il volto dello straniero, ma dell’italiano.
Lombardo, veneto, romagnolo, marchigiano. Visto che oggi gli stranieri siamo noi. Stranieri a noi stessi. Lontani dagli altri. Sempre più soli.
L’abitudine alla paura rischia, così, di farci sottovalutare la grave minaccia prodotta dal coronavirus. E di isolarci. Noi, collegati agli altri attraverso i media e il digitale. Rischiamo di perdere la speranza. E noi stessi. Perché solo fra gli altri e con gli altri possiamo rafforzare la nostra sicurezza.