Ci aveva tratto in inganno il sabato di primavera precoce che ha riempito i parchi, fatto sbocciare le violette selvatiche, trasferito in mezzo al verde i frequentatori delle palestre chiuse che non vedevano l’ora di muovere i muscoli, sferzati dai trainer. Su questo scenario idilliaco, volteggiavano i calcoli sinistri dell’incremento dei contagiati, fino a scendere in picchiata all’ora di cena e farcela andare di traverso. Il provvedimento estremo, il blocco totale da coronavirus, sussurrato solo a mezza bocca dalle autorità, per ora indecifrabile nelle concrete modalità di applicazione, ci è piombato addosso. Forse provvidenziale, chissà quando lo scopriremo. Ma intanto la Milano che al sole non si vedeva, la Milano al tempo dell’epidemia — quattro secoli dopo non ci permetteremo di chiamarla pestilenza — è anche una Milano chiamata a fare i conti con una sua dimensione esistenziale inconcepibile nel passato: i numeri della solitudine metropolitana. Numeri che sono persone. Dei 745 mila nuclei famigliari registrati all’anagrafe nel 2018, più di 400 mila sono unipersonali. Vuol dire che più della metà dei residenti vivono da soli. I single sono più del doppio delle coppie (163 mila) e più del triplo delle famiglie composte da tre membri (92 mila).
Ora che il coronavirus impone brutali misure di “distanziamento sociale”, fino a rendere necessario talvolta l’autoisolamento, ciò significa che a un numero massiccio di milanesi verrà richiesto di non uscire dall’appartamento in cui vivono da soli. Un’alta percentuale fra loro sono anziani, visto che l’età media degli abitanti è di 45,5 anni. Quasi in ogni condominio ci sono ultrasettantenni, prevalentemente vedove, bisognosi di cure, che quando va bene godono solo delle premure di una badante e della visita di un figlio. Questa è una differenza sostanziale rispetto alla Milano del Seicento raccontata dal Manzoni. Più ricca e dotata di servizi sociali, certo, dieci volte più popolata, ma con i capelli bianchi e senza la compagnia di una famiglia. Tanto da indurci a proporre l’interrogativo: come saranno i lazzaretti contemporanei? Più igienici, d’accordo, forniti di respiratori e farmaci adeguati, speriamo, e infine frazionati in singole unità abitative per gli asintomatici.
Ma questo benessere di cui fortunatamente godiamo impone subito l’interrogativo seguente: come cambia la vita di chi, benché non sottoposto a quarantena, debba mantenere le distanze dal suo prossimo perché soggetto più di altri al contagio?
Era già accaduto che la minor quantità di lavoro necessario e il dilatarsi, fin qui considerato benefico, del tempo libero, inducessero una moltitudine di persone sole a ricercare nella sfera virtuale tridimensionale il principale nutrimento dei propri bisogni emotivi. Bella espressione, “tempo libero”. Solo che, nella dismisura, il tempo libero aveva cominciato a trasformarsi in tempo vuoto, fonte di angoscia. Venuti meno la possibilità o la necessità di lavorare, quel vuoto è stato riempito di forme d’intrattenimento studiate apposta per coinvolgerti senza più bis ogno di instaurare relazioni personali, fisiche, con altri individui. Le misure dello stato d’emergenza sanitaria prescrivono adesso qualcosa di più: precauzioni di distanza che, per migliaia di milanesi, comporteranno un inevitabile, ulteriore isolamento forzato. Cioè lunghe giornate di solitudine. Per quanto tempo? Non si sa. Di certo abbastanza per consolidare abitudini di vita marginalizzata tali da modificare non solo i consumi, ma anche i profili psichici dei soggetti interessati. Chi finora poteva permetterselo, destinava una quota del suo tempo libero/vuoto al turismo. Ma viaggiare è diventato un problema. Le pagine spettacoli dei giornali recensiscono film appassionanti, ma le cronache milanesi degli stessi giornali non pubblicano più i tamburini dei cinema perché in questo periodo non sono in programmazione. Il campionato di calcio a porte chiuse taglia fuori i meno abbienti, sprovvisti di pay-tv. La popolazione anziana soggetta all’autoisolamento ha scarsa confidenza con i videogiochi e le serie televisive diffuse via Internet. Perfino la messa domenicale è divenuta off limits.
È probabile che qualcuno escogiti presto nuove forme di appagamento virtuale destinate ai solitari, tagliati fuori dalla possibilità di vivere relazioni sociali tradizionali. C’è da augurarsela, questa sostituzione del reale con il virtuale? Può darsi, in mancanza di alternative. Ma resta il fatto che il coronavirus è arrivato prima delle multinazionali degli algoritmi, capaci di inventarsi questi linguaggi sostitutivi. E dunque, per l’intanto, il sindaco Sala, le associazioni del volontariato, gli amministratori dei casermoni di edilizia popolare, faranno bene a preoccuparsi anche di questa inedita forma di emergenza che è la solitudine metropolitana. Se non vogliamo che nella Milano divenuta “zona rossa” sopraggiunga pure, in aggiunta al Covid-19, un’epidemia di sindrome da abbandono. I cui sintomi sono: ansia da separazione, insicurezza sentimentale, sfiducia negli altri, rifiuto dell’intimità emotiva. Cioè esattamente quel che sta succedendo nei condomini di periferia, di fianco ai parchi in cui giocano i bambini, si allenano i colletti bianchi e scorrazzano i cani. Il vocabolario dei sociologi ha introdotto una locuzione strampalata per descrivere la mutazione in atto nelle metropoli che invecchiano, dove l’Istat ci dice che ormai i single rappresentano una famiglia italiana su tre, aumentando al ritmo di +50% ogni decennio: la monolocalizzazione della vita quotidiana. L’Italia al tempo del coronavirus trova nel laboratorio milanese un materiale umano — mi si passi l’espressione — particolarmente esposto ai virus della paranoia e della depressione. Una sfida culturale che non riguarda solo i medici e gli infermieri in prima linea. Qui non si tratta solo di rassicurare i soggetti a rischio o di recapitare generi di prima necessità agli autoreclusi fra le pareti domestiche. Ma di rinforzare le fondamenta di un edificio sociale minato dalla sproporzione fra giovani e vecchi, e dall’incedere della solitudine. Siamo costretti a fermarci. Se il tempo si mantiene bello, Sergio Escobar e Andrée Ruth Shammah, che si sono comprensibilmente lamentati per la chiusura imposta ai teatri milanesi, potrebbero organizzare degli spettacoli nei cortili del Lorenteggio o della Barona. Non sarebbe la soluzione, ma un bel segnale sì.