Potremmo chiamarle le comunità silenziose. Sono quei segmenti della nostra società che pur non particolarmente coccolati dalla politica dimostrano nelle circostanze avverse una tenuta che non era scontata e che a priori non veniva riconosciuta loro. Il contesto è ovviamente quello dell’inedita crisi legata alla diffusione del coronavirus e ai comportamenti che hanno saputo mettere in campo almeno due di questi segmenti: i ricercatori e gli operai. Le cronache di questi giorni ci hanno fatto conoscere i successi e le biografie dei tecnici dell’ospedale Spallanzani di Roma e del Sacco di Milano. Entrambi i team hanno prodotto avanzamenti di grande rilievo nella conoscenza del virus, isolando i primi la versione cinese e i secondi quella italiana e ci si può aspettare che operando in un regime internazionale di open data i loro lavori confluiscano nella battaglia per domare il Covid-19. Leggendo i racconti abbiamo potuto constatare come il mondo della ricerca si stia femminilizzando molto velocemente e abbiamo anche appreso come gli aggettivi che sempre più sovente si abbinano al sostantivo ricercatore siano precario e sottopagato.
Gli esperti spiegano che i Paesi più avanzati non applicano a uomini e donne della ricerca la metrica del posto fisso ma allora si deve pur trovare un equilibrio tra rischio che ricade sul singolo, promozione del suo lavoro, carriera e retribuzione. Altrove ci riescono tranquillamente, da noi no. E anzi la comunità dei ricercatori finisce per sommare i danni di un combinato disposto di inquadramento incerto, scarsi finanziamenti e incrostazioni burocratiche. È seccante, quindi, che ministri e autorità scoprano e illuminino queste realtà solo a valle di una straordinaria performance dei team Spallanzani o Sacco e ne sottovalutino invece la loro preziosa normalità.
Qualcosa del genere vale anche per gli operai. Ora che si è acclarato che votano in larga quantità per la destra sono diventati meno simpatici e cinematografici di ieri ma stanno dando una grande dimostrazione di forza. Il presidente della Confindustria Alto Adriatico, Michelangelo Agrusti, uno che nella sua vita tra politica e associazionismo ne ha viste tutte e di più, ieri si è recato all’ora di pranzo alla mensa degli operai della Zanussi Professional di Pordenone. È andato a ringraziarli perché in questi giorni di improvvisazioni mediatiche e follie collettive le tute blu si sono regolarmente presentate in fabbrica «come un sol uomo». Una rapida indagine condotta grazie alla collaborazione della Fim-Cisl mi ha permesso di appurare che qualcosa del genere è avvenuto in tutta Italia, con la sola eccezione delle zone rosse. Qualche azienda ha chiesto ai propri lavoratori di riempire un questionario, altre hanno installato ai tornelli degli scanner termici, altre hanno fornito i dispositivi di base per la sicurezza. Dove le lavorazioni lo hanno reso possibile — soprattutto le mansioni impiegatizie — si è avviata una sperimentazione (senza precedenti per quantità) della buona pratica dello smartworking . Tutto si è svolto in buon ordine e senza scene madri a dimostrazione, anche qui, della compostezza di una comunità. Che ad onor del vero anche in tema di convivenza fianco a fianco di diverse etnie aveva mostrato da tempo una straordinaria capacità di far coesistere rispetto, diritti e doveri. In entrambi i casi, ricercatori e operai, stiamo parlando di segmenti del lavoro pienamente aperti alla concorrenza e non certo abituati alla protezione. È anche per questo motivo che il loro silenzioso esempio, in una fase nella quale abbondano frammentazione e interpretazioni a soggetto, vale doppio: ci restituisce l’idea di un Paese serio e responsabile, quale siamo chiamati ad essere nei difficili giorni che ci aspettano.