Il bollettino sanitario dell’effetto coronavirus — in continua evoluzione — è già chiaro a tutti. Da domani però, con la riapertura (anzi con la mancata riapertura) di uffici, imprese, negozi e impianti nelle aree dei focolai di contagio l’Italia inizierà a fare i conti — amarissimi anche quelli — con i danni economici dell’epidemia. Nessuno si azzarda oggi a fare ufficialmente cifre o previsioni. Ma la posta in gioco, anche con contagi geograficamente limitati come ora, è altissima. Le imprese di Codogno e Casalpusterlengo, due dei comuni finiti in quarantena in Lombardia, fatturano da sole 1,5 miliardi l’anno. E ogni giorno di stop, pallottoliere alla mano, rischia di mandare in fumo 4 milioni di entrate. Il conto salirebbe a 18 milioni al giorno se la serrata fosse estesa a tutta la provincia di Lodi. Le 461 imprese di Vo’ Euganeo — paese da cui arriva la prima vittima del virus — macinano 107 milioni di incassi l’anno, oggi a rischio. E se le misure restrittive di quarantena dovessero allargarsi per cause di forza maggiore all’intero settore produttivo di Lombardia e Veneto il conto rischierebbe di essere salatissimo visto che le due regioni valgono da sole 550 miliardi di Pil — il 31% di quello italiano — e che da qui parte il 40% delle esportazioni tricolori.
Cosa succede a un Paese paralizzato dal coronavirus lo raccontano bene i dati che arrivano in questi giorni dalla Cina. Le vendite di auto nelle prime settimane di febbraio sono crollate del 92%, quelle di case del 90%. Due terzi degli aerei della flotta nazionale di Pechino sono a terra. E la scarsa disponibilità di materie prime alimentari (causa problemi nelle forniture) ha fatto schizzare al rialzo del 20% i prezzi del cibo.
La task force del governo, non a caso, sta già iniziando a disegnare una sorta di piano Marshall per aiutare le imprese delle aree finite in quarantena. Si va da misure pratiche immediate — come la malattia garantita ai residenti nelle aree del contagio che non possono recarsi al lavoro — fino alla cassa integrazione per le aziende costrette a chiudere temporaneamente l‘attività. La cintura di sicurezza sanitaria attorno ai focolai del Covid-19 del resto è una sorta di linea Maginot fondamentale anche per prevenire un drammatico contagio economico. Poco a nord di Codogno ci sono — a San Donato Milanese — i quartieri generali di Eni, Saipem e Snam. Poco a sud c’è uno dei più grandi centri di logistica Amazon in Italia, la meccanica piacentina e i gioielli dell’industria alimentare emiliana. Attorno a Vo’ Euganeo è a rischio l’enorme galassia delle 107 mila pmi della provincia di Padova che da sole valgono 29 miliardi di fatturato. La speranza, al momento, è di circoscrivere i danni. «È di tenere chiuse le aziende il meno possibile — auspicano in Assolombarda — visto che i clienti, se non ricevono le forniture per troppi giorni, fanno veloci a rivolgersi altrove». Sia la Lombardia sia il Veneto, tra l’altro, stavano già pagando un prezzo altissimo al coronavirus ben prima ancora dei contagi italiani. Alla settimana della moda di Milano ci sono stati mille compratori cinesi in meno (— 80%) dell’anno scorso. Il mancato arrivo dei turisti da Pechino a Venezia, Verona e nel capoluogo lombardo ha dato un colpo durissimo ad alberghi e commercio in queste zone. Le vendite di abiti griffati, gioielli e profumi nel quadrilatero della moda meneghino tra Via Montenapoleone e la Galleria valgono circa il 12% del Pil di Milano. E lo shopping cinese (con una spesa media di 2.130 euro a testa) rappresenta da solo un quarto di questa cifra. Il Carnevale di Venezia, calcola Confturismo, ha perso 22 milioni per l’effetto coronavirus. E l’allarme rosso per il contagio nel padovano rischia di far crollare il record di oltre 70 milioni di presenze turistiche segnato in Regione lo scorso anno.