Il coronavirus ha indebolito le nostre certezze. Non solo perché costituisce una fonte di in-certezza, ma perché ha reso più complicato, se non in-utile, utilizzare i consueti sistemi di difesa dalle minacce alla nostra sicurezza. Per primo: la chiusura dei confini. Già, i confini. Quali? Fino a ieri si trattava dei confini del Sud, dove sbarcavano i migranti africani. Perché la minaccia erano loro. I neri. I grigi. Che provengono dall’Africa. Si imbarcano (o venivano imbarcati) in Libia. E arrivano da noi. Alimentando l’insicurezza. Intorno a noi. In precedenza, ormai tanti anni fa, i confini “da difendere per difenderci” erano ad Est. Verso la ex-Jugoslavia. Confini attraverso i quali arrivavano contingenti di persone ammassate come pacchi. Meglio: come animali. Più tardi, nel corso degli anni, quel flusso è stato regolato. E, anzi, “incentivato”.
Perché dai paesi dell’Est proviene gran parte delle donne che “badano” ai nostri anziani. A molti di noi, italiani. Un popolo che invecchia. Anzi, invecchiato. Incapace di trattenere i propri giovani, che, per questo, scavalcano i confini. A Nord.
Per studiare e lavorare altrove. Soprattutto in Germania, in Francia e in Inghilterra. Almeno, fino a quando, dopo la Brexit, non li respingeranno… Ma oggi la diffusione del coronavirus ha complicato la geografia e la provenienza dei flussi migratori. E delle “paure” che veicolano. Ne ha spostato il baricentro altrove.
Sempre più a Est. Sempre più lontano. Più precisamente, in Cina. L’area dove il virus e l’infezione si sono diffusi. Così è divenuto più difficile indicare un centro, una provenienza, una direzione, alle nostre paure. Per contrastarne il per-corso. Non è solamente un problema di prevenzione. Ma, anzitutto e soprattutto, di “comprensione”. E “definizione”.
Perché se non riusciamo a de-finire la fonte della nostra incertezza, l’insicurezza diventa ir-rimediabile. De-finire, d’altronde, significa tracciare un con-fine. Il “finis”, appunto. Necessario a distinguerci dagli altri. E, dunque, a riconoscerci. Ma, in questi giorni, i “confini”, per quanto sempre più evocati e ri-evocati servono sempre meno.
Anzitutto, perché la Cina è lontana, geograficamente. Ma è molto vicina, sul piano economico. E migratorio. I cinesi, in Italia, non sono moltissimi, ma neppure pochi. Oltre 300 mila. Operano in (spesso gestiscono) un sistema commerciale diffuso e molto frequentato. Soprattutto in alcune Regioni del Centro-Nord. Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna. Inoltre, la Cina, per l’Italia, è una destinazione di crescente interesse. Per ragioni turistiche, ma, in primo luogo, economiche. Tuttavia, è difficile affermare che “La Cina è vicina”, come recitava il titolo di un noto film diretto da Marco Bellocchio, negli anni Sessanta.
Allora, evocava l’ombra dell’estremismo maoista. Ma oggi preoccupa di più. Perché è il simbolo di un fenomeno più ampio. La “globalizzazione”. D’altronde, un anno fa, nell’XI Rapporto sul sentimento di insicurezza, curato da Demos-Fondazione Unipolis, la “globalizzazione” era indicata come motivo di incertezza frequente da oltre un terzo degli italiani. Ci sono fondati motivi per ritenere che quest’anno le proporzioni siano aumentate ulteriormente. A causa del coronavirus. Appunto. Che amplia le misure e dilata i confini di un fenomeno senza misure, s-confinato.
La “globalizzazione”, appunto. Evoca la percezione di un “mondo che ci sta crollando addosso”, come recita il testo di una canzone dei Rokes degli anni Sessanta, ben nota alla mia generazione. Ma, in modo, ovviamente, più rigoroso e autorevole, Anthony Giddens richiama “l’intensificazione di relazioni sociali mondiali (…), facendo sì che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa”. In altri termini, la globalizzazione significa che tutto ciò che avviene dovunque nel mondo ha effetto immediato su ciascuno di noi, dovunque si trovi. Per effetto, soprattutto, della comunicazione, mediale e digitale. Che non ha confini, né ostacoli. E ciò rende evidente quanto sia improponibile e improvvida la pretesa di chiudere le frontiere. Semmai, seguendo questa logica, è probabile, comunque possibile, che Paesi confinanti chiudano (comunque, controllino maggiormente) le frontiere. (In Francia l’ha proposto Marine Le Pen, appoggiata da Matteo Salvini, in Austria hanno deciso di bloccare i treni). Per difendersi dall’Italia. Divenuta ormai il focolaio virale… Una soluzione, comunque, poco efficace. Perché il mondo non ha più frontiere im-penetrabili. Al contrario. Come emerge, in modo evidente, dalla vicenda del coronavirus.
Infatti, è molto difficile delimitare il contagio. Perché i virus non hanno nazione e nazionalità. Non hanno confini ai quali bloccarli. Basta vedere la nazionalità delle persone infette, in Italia. Ormai, quasi tutte italiane. Perlopiù, non hanno viaggiato in Cina, negli ultimi mesi. Hanno, invece, frequentato luoghi pubblici. Bar, supermercati, stadi, piazze… Come tutti noi.
D’altronde, la globalizzazione coinvolge tutti. Dovunque. Per difenderci dal coronavirus, allora, ci dovremmo “difendere dal mondo”. Sospendere le relazioni personali e sociali.
Chiuderci in casa. Da soli. Nasconderci. Come è previsto nelle zone di crisi. Inoltre, non dovremmo guardare la tv, né accedere ai media. Non dovremmo comunicare. Per non farci risucchiare nella spirale della paura. Perché il Mondo incombe su di noi, anche e soprattutto, attraverso i media.
Insomma, per non morire infettati dagli altri, diventando noi stessi “veicoli virali”, dovremmo morire da soli. E questo mi pare un rischio più rischioso del coronavirus…