Il governo l’altro giorno ha tentato qualcosa che, in un’Italia strangolata dalla dittatura del breve termine, si osa sempre di meno: ha guardato ai prossimi dieci anni, azzardandosi a indicare una strada. Lo ha fatto il ministro per il Sud Beppe Provenzano, quando venerdì ha presentato un piano per ridurre la frattura territoriale del Paese. Provenzano indica un gran numero di misure sulla scuola o l’uso dei fondi europei e già dai prossimi mesi la tenuta della maggioranza, assieme all’efficienza dell’amministrazione, permetteranno di capire se il suo piano può funzionare.
È però possibile fare da subito l’esperimento opposto: ci si può chiedere cosa accadrebbe, semplicemente, se non ci fosse nessun piano di questo e dei futuri governi. Si può provare a immaginare cose sarebbe l’Italia in futuro se non succedesse nulla di nuovo. Se la grande divergenza sociale, produttiva, educativa, migratoria, demografica, sanitaria, degli stili di vita, delle aspettative e della partecipazione civica degli abitanti dei suoi territori continuasse come ha fatto negli ultimi dieci anni, o decenni. È solo un test, la proiezione arbitraria sui prossimi anni delle derive degli ultimi dieci. E come in tutti i test conviene prendere gli estremi, il Mezzogiorno e il Nord, tenendo fuori le misure spesso intermedie del Centro Italia. L’obiettivo è farsi un’idea di cosa può accadere fra quelle due aree se tutto restasse sul piano inclinato di questi anni.
Di sicuro il rapporto di forze fra Nord e Sud del Paese sarebbe destinato a cambiare. L’Istat ha mostrato nei giorni scorsi che la popolazione nelle regioni meridionali nel 2019 si è ridotta (di 129 mila persone) più che quella di tutta l’Italia nel suo complesso (scesa di 116 mila persone). In altri termini al Centro e soprattutto al Nord prosegue lentamente un incremento nel numero degli abitanti, mentre il calo delle nascite e l’aumento dell’emigrazione verso il resto del Paese stanno erodendo la popolazione delle regioni meridionali. L’Italia si riempie pian piano da una parte e si svuota rapidamente dall’altra. Le leggi della demografia sono simili a quelle dei ghiacciai, che si spostano pianissimo fino a cambiare profondamente. Oggi con quasi ventuno milioni di residenti il Mezzogiorno d’Italia per popolazione pesa per circa tre quarti del totale degli abitanti del Nord, ma cosa può succedere alle tendenze attuali? L’Istat lo mostra nelle sue previsioni: nello scenario «mediano» il numero degli abitanti del Nord cresce fino al 2042 e quello del Sud non fa che calare. Fra ventidue anni sarà meno di due terzi rispetto al settentrione.
Cause e conseguenze a quel punto si alimenteranno a vicenda nell’economia, nella vita civile e in quella quotidiana. Per esempio, gli indicatori dell’Istat mostrano che la probabilità di un laureato di lasciare il Sud fra i suoi 25 e 39 anni è salita di recente dal 31% al 35%. Più di un laureato su tre se ne va, mentre il Nord ne riceve un afflusso netto. Anche per questo fra gli abitanti di 30-34 anni l’incidenza dei laureati nel Meridione era dell’80% dei livelli settentrionali dieci anni fa, è scesa oggi al 65% e alle tendenze attuali fra dieci anni — per un pari numero di giovani — i laureati al Sud non saranno molto più della metà di quelli del Nord. A quel punto il lavoro nella parte meno ricca d’Italia potrebbe diventare sempre meno qualificato e produttivo, con il rischio di accelerare le tendenze in corso: calcoli della Banca d’Italia dei mesi scorsi mostrano che il reddito pro-capite al Sud era pari al 64% del Centro-Nord nei primi anni ’70 ma appena del 55% alla fine di questo decennio. Si può solo immaginare il seguito, se si nota che lo scarto nel tasso di occupazione è cresciuto da venti punti percentuali dieci anni fa a ventiquattro oggi e la deriva prosegue.
Peso politico
Gli slittamenti sono destinati a ripercuotersi in politica: le regioni settentrionali conteranno sempre di più nei referendum
Gli slittamenti demografici sono poi destinati a ripercuotersi in politica. Non solo le regioni settentrionali conteranno sempre di più nei referendum e potrebbero rivendicare un peso maggiore in Parlamento o nella ripartizione del bilancio pubblico, anche la disaffezione civica di un Sud che si sente sempre più periferia irrilevante può facilmente aumentare. Se ne vedono già i segni. Fatta pari a cento l’affluenza elettorale alle europee del Nord Italia, quella meridionale negli ultimi dieci anni non ha fatto che scendere: era all’81% del Settentrione nel voto del 2009, al 74,6%% cinque anni fa e al 70% a maggio scorso. I meridionali fanno sentire sempre di meno la propria voce e si può solo chiedersi fino a che punto arriveranno nell’apatia riguardo alla cosa pubblica.
Anche la società italiana dà segni di biforcazione lungo i suoi diversi paralleli. Dieci anni fa l’aspettativa di vita nel Mezzogiorno era di appena mezzo anno inferiore al Nord, più di recente la differenza è salita a un anno e se lo slittamento prosegue sarà quasi di un anno e mezzo nel 2028. Conta anche che l’incidenza della mortalità per tumori, che dieci anni fa era più bassa al Sud, di recente ha superato i livelli del Nord. Certo l’insicurezza generale nella società meridionale è così diffusa che più persone si dichiarano preoccupate di andare in giro da sole al Sud, anche se borseggi, rapine, furti in casa e anche omicidi sono meno frequenti che nel Nord.
Gli indicatori della banca dati Istat disegnano così una nazione percorsa da incrinature che fra dieci o vent’anni — se nulla cambia — potrebbero diventare vere e proprie fratture. Ma gli italiani sono ancora tenuti insieme da alcune percezioni comuni. Uno di questi è l’amor di patria. Un altro, a un estremo e all’altro della penisola, è che esattamente il 2,5% degli abitanti dichiara oggi di fidarsi dei partiti. Non uno di più.