A questo punto dovrebbe essere chiaro che la mentalità non è puro spirito, come teorizzato dai filosofi idealisti, né ha una origine metafisica, come nella fede dei credenti. Ma soprattutto non è inscritta nel dna delle persone, come a volte erroneamente si sente dire anche dai leader politici più accreditati. Come abbiamo detto, la formazione di una mentalità si articola in tre momenti: sedimentazione delle abitudini, istituzionalizzazione in norme obbligatorie, legittimazione dell’intero sistema. Si tratta di un insieme di pratiche sociali e di generalizzazioni astratte che nulla hanno a che vedere con il dna del gruppo etnico che le condivide.
Purtroppo, invece, nell’immaginario collettivo si verifica una specie di illusione ottica che collega un insieme di atteggiamenti e di visione del mondo al colore della pelle o ai caratteri somatici di una popolazione. La confusione può nascere dal fatto che effettivamente i gruppi etnici sono portatori di una mentalità sociale, ma non per il fatto di avere un particolare corredo cromosomico diverso da quello di altri gruppi etnici.
L’identità tra mentalità e gruppo etnico s’intravede effettivamente nella stessa definizione adoperata in questo libro: la mentalità sociale «è composta da […] istruzioni standard […] in una popolazione che condivide la stessa lingua, la stessa epoca storica e la stessa localizzazione geografica». Ma nessuno di questi aspetti – lingua, storia e geografia – ha a che fare con i cromosomi. L’interpretazione razziale delle mentalità è un’illusione ottica non supportata da evidenza scientifica.
Tale evidenza non potrà esserci fino a che non si saranno scoperti particolari geni collegati alle capacità intellettive di una persona, così come invece sono noti i geni che determinano il colore della pelle. La ricerca scientifica sta facendo passi da gigante in tal senso, specialmente dopo la decodifica della mappatura del genoma umano avvenuta nel 2003.
Tuttavia, al momento, l’evidenza empirica mostra che il corredo cromosomico effettivamente conta, a livello dei singoli individui, nella predisposizione a certe malattie ma non allorquando i confronti siano eseguiti tra gruppi etnici: nel senso che le differenze riscontrate all’interno di ciascun gruppo etnico sono maggiori delle differenze riscontrate tra i valori medi dei diversi gruppi. In altri termini, in ogni gruppo etnico c’è la stessa distribuzione di probabilità dei diversi tipi genetici. Di conseguenza le differenze riscontrate tra le medie performative dei diversi gruppi etnici sembrerebbero da imputare alle differenze di contesto entro cui questi si trovano a operare. In altre parole, la probabilità di trovare una maggiore percentuale di persone naturalmente timorose, e dunque avverse al rischio d’impresa, non è diversa passando da un gruppo etnico all’altro. L’incidenza d’imprenditori in un certo gruppo etnico non può essere pertanto attribuita alla maggiore/minore incidenza di persone timide e avverse al rischio a causa di ragioni genetiche, ma deve essere attribuita all’educazione ricevuta.
Disgraziatamente, il dibattito pubblico su questi temi delicati e scottanti è molto più grossolano e polarizzante: o si condivide l’approccio antropologico nella convinzione che la propria mentalità, le proprie tradizioni siano sacre, immutabili e migliori di quelle di altri popoli, oppure lo si rifiuta nel timore che ci porti a condividere teorie razziste. Vediamo di capire meglio i motivi di questa polarizzazione. Probabilmente ha molto a che vedere con i limiti dell’apparato cognitivo umano.
Secondo la visione strutturalista, il comportamento individuale è determinato dalle condizioni esclusivamente strutturali (natura, tecniche produttive, mercato e istituzioni). All’estremo opposto si colloca la visione comportamentista, per la quale è il comportamento degli individui a generare il cambiamento strutturale. Secondo questa ultima concezione, sono personaggi di spicco – che abbiano realizzato un’invenzione epocale o vinto una guerra contro nemici esterni o condotto una rivoluzione – a produrre quei cambiamenti strutturali che poi si codificano e persistono. Queste due visioni estreme del mondo sono probabilmente le più diffuse nella popolazione, fino a permeare di sé le concezioni della politica economica.
Se prendiamo il caso dell’annosa questione meridionale del nostro Paese, divenuta un laboratorio internazionale per verificare o falsificare le teorie più disparate, osserviamo come i due paradigmi più semplici, quello strutturalista e quello comportamentista, si siano alternati a ispirarne le politiche di sviluppo. Dal secondo dopoguerra agli anni Settanta del secolo scorso ha dominato la visione strutturalista e le politiche di sviluppo adottate sono state coerenti con tale concezione: la Riforma agraria e la creazione della Cassa per il Mezzogiorno sono esempi tipici di politiche strutturali. Negli anni Ottanta e Novanta, forse anche a causa dei modesti successi delle precedenti politiche, è avvenuto il cambio di paradigma: a seguito della deregulation e della rinascita delle politiche liberali, si è passati a credere che tutto dipendesse dagli imprenditori di successo e dunque dal corredo cromosomico di certi particolari individui, abbandonando ogni tipo di intervento pubblico, anche quello cruciale sulle infrastrutture.
Il fatto è che le visioni semplicistiche sono le più popolari per definizione. Ciò spiega il trionfo delle visioni dualistiche e la difficoltà a comprendere il ruolo del terzo incomodo, la mentalità sociale. La struttura è qualcosa che si percepisce, si può toccare con mano: un pozzo di petrolio, come le distese di terreni fertili scarsamente popolate. Altrettanto fisico è il dna, che è fatto di proteine, anche se non lo vediamo e non lo possiamo toccare con mano. Ma qualcosa di evanescente e immateriale come l’educazione di un popolo, come si fa a immaginarla responsabile delle differenze di reddito esistenti al mondo? Come mettere in dubbio le convinzioni strutturaliste e comportamentiste con cui siamo cresciuti, radicate nelle menti della maggioranza delle persone? È più facile credere a spiegazioni «solide» anche se parziali del sottosviluppo economico, quali la distanza dai mercati o, peggio ancora, un bagaglio genetico immodificabile e dunque tara indelebile.
Se invece si riconosce alla storia un ruolo importante e si percepisce che siamo diventati ciò che siamo a causa dei comportamenti di quanti ci hanno preceduti (e non a causa del loro dna), può succedere che, invece di prendere coscienza della realtà e di porvi rimedio cambiando i comportamenti attuali, ci si inventi una storia più consona ai propri desideri, con lo scopo di mantenere alta la propria autostima. Ci s’inventa un passato mitico, come nel caso dell’ideologia neo-borbonica (oggi molto popolare per spiegare l’arretratezza del Sud) che attribuisce all’arrivo dei piemontesi, anziché al malgoverno borbonico, l’origine della sfortunata «questione meridionale».
*da: Le chiavi della prosperità. Gli atteggiamenti mentali che generano sviluppo, di Matteo B. Marini, Egea (2019)