L’economia cinese, stretta nella morsa del coronavirus, rallenta ancora di più. Ieri Foxconn, il più grande produttore di componenti elettronici e principale fornitore di Apple e di tutti gli altri big dell’hitech, ha avvisato i 300mila dipendenti della sua sede di Shenzhen di non tornare al lavoro al termine delle festività legate al Capodanno lunare, prorogate dal governo di Pechino fino al 10 febbraio. Questo «per salvaguardare la salute e la sicurezza di tutti e rispettare le misure di prevenzione del governo». Stessa decisione da parte di Toyota, che a sua volta ha deciso di prolungare sino al 16 la fermata degli impianti, in tutto 12 fabbriche di auto e componenti sparse tra Tianjin e la provincia meridionale del Guandong. Fermo sino al 17 anche l’impianto Bmw di Shenyang, mentre Honda va controcorrente e conta di riprendere già il 13 la produzione nei tre stabilimenti di Whuan. L’isolamento di intere città e le notevoli restrizioni introdotte sul fronte dei viaggi interni, intanto, hanno mandato al tappeto l’industria petrolifera: secondo l’agenzia Bloomberg la settimana scorsa le raffinerie statali e private del Paese hanno tagliato di almeno 2 milioni di barili al giorno la quantità di greggio trattata, riducendo del 15% la produzione. Già nel primo trimestre di quest’anno l’economia del gigante asiatico, inevitabilmente, subirà un pesante contraccolpo. Secondo l’agenzia di rating Standard and Poor’s il coronavirus infliggerà «un duro colpo all’economia cinese». Col risultato che quest’anno il prodotto interno crescerà appena del 5% contro il 5,7 stimato prima che si diffondesse l’epidemia. «Nonostante l’incertezza, la nostra ipotesi di base è che il virus sarà contenuto entro marzo 2020», precisa l’agenzia Usa, che per il 2021 prevede un rimbalzo a +6,4%. La situazione viene monitorata attentamente dalla Federal Reserve americana che teme ripercussioni sui mercati mondiali. «La recente comparsa del coronavirus – è scritto nel rapporto semestrale sulla politica monetaria – potrebbe portare a sconvolgimenti in Cina che si ripercuoteranno sul resto dell’economia globale». Secondo Goldman Sachs nel primo trimestre gli Usa potrebbe perdere sino a 0,4 punti di Pil. Mentre un punto in meno di crescita cinese, stando ad altre stime, farebbe perdere oltre un decimale alla Germania e circa mezzo punto all’Italia. A pagare un conto particolarmente pesante saranno i consumi interni del Paese. Nei giorni scorsi chiusure e riduzione delle attività sono state annunciate da tutte le principali grandi catene, da Ikea ad Adidas, a Nike, McDonald’s (che ha chiuso sino a data da destinarsi i suoi ristoranti di Wuhan, Ezhou, Huanggang, Qianjiang e Xiantao) e Starbucks, che ha fermato metà dei propri 4.300 punti vendita in Cina. Ieri è stata invece la volta della catena di moda Uniqlo che ha chiuso temporaneamente la metà dei suoi 750 punti vendita e di Burberry, che ha sospeso le vendite in 24 negozi su 64, mentre i rimanenti 40 operano con orari ridotti. Chiusi anche 150 dei 225 store cinesi del gruppo “Capri Holdings” (Michael Kors, Jimmy Choo e Versace) che per quest’anno, tra crisi cinese e impatto sul turismo mondiale, si aspetta 100 milioni di dollari di ricavi in meno. E l’Italia? Il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, azzarda una stima. «Gli effetti del coronavirus – ha spiegato ieri – stanno colpendo interi comparti della nostra economia, come il turismo che sta registrando un crollo di presenze». Di qui la previsione di una possibile perdita dello 0,3% del Pil e la richiesta al governo «di intervenire con misure concrete per sollevare quelle imprese che stanno vivendo un momento di grandissima difficoltà».