Sono 3 minuti potentissimi. Un passaggio di appena 180 secondi, che racchiude un’indimenticabile lezione di management. Il professore è Sergio Marchionne che a giugno del 2014, durante la presentazione al Festival dell’Economia di Trento del libro Made in Torino? di Giorgio Barba Navaretti e Gianmarco Ottaviano, infila una dopo l’altra tre o quattro memorabili massime di cultura industriale e di gestione aziendale.
In sintesi: uno studente di economia gli spara due domande secche: che cosa dovrebbero fare in concreto i manager italiani per aumentare la produttività? È giusto appiattire i processi decisionali nelle imprese?
Marchionne non se lo fa ripetere due volte e pianta subito il primo paletto: «Il vero problema dei manager è che più piramidi crei e peggio gestisci l’azienda». Poi si spiega così: «Se io avessi tre vice sotto di me starei tutto il giorno a rompergli le scatole chiedendogli cosa stanno facendo. Più stretto è il controllo e peggio funziona l’azienda. È per questo che io ho 70 o 80 persone con le quali lavoro direttamente e così rompo loro le scatole in maniera più distribuita».
È tutto qua il modello di azienda piatta o orizzontale sul quale Marchionne ha plasmato Fiat Chrysler. «L’azienda si muove ad alta velocità grazie a questo modello perché consente decisioni condivise e rapidità di esecuzione», spiega il manager a una platea attentissima. «Ma soprattutto in questo modo i manager hanno molta libertà e spazio d’azione. Certo si tratta di gente che io seleziono in modo molto preciso e che è responsabilizzata perché sa che io non gli sto sul collo. Poi se sgarrano conviviamo per poco».
Ma perché l’azienda orizzontale fa aumentare la produttività più di quella verticale? «La base del nostro risanamento è a livello di stabilimento», spiega ancora Marchionne. Che pronuncia a questo punto parole inattese: «Noi abbiamo liberato le forze della massa operaia».
«Se stiamo parlando di rivoluzione culturale, è questa qui»
Sergio Marchionne
Marchionne porta come esempio lo stabilimento di Pomigliano dove – racconta – i capi e gli ingegneri sono al centro della fabbrica, lavorano in uffici protetti solo da vetrate, sono completamente visibili dagli altri lavoratori e vestono come gli operai in linea. «La realtà», continua Marchionne strappando un applauso più stupito che convinto, «è che il vero coinvolgimento della massa operaia è quello che ha fornito il livello di produttività necessario. Siamo andati oltre gli schemi e lo abbiamo fatto in Italia. Anzi a Pomigliano, a mezz’ora da Napoli, lì abbiamo il miglior stabilimento d’Italia».
«A Napoli», scandisce, soddisfatto per aver rivoluzionato una fabbrica in un Paese conservatore come l’Italia e forse nel territorio più difficile, e fa scattare una risata liberatoria. E poi conclude con una frase che ancora oggi stupisce chi non ha seguito o capito la sua «rivoluzione»: «Se stiamo parlando di rivoluzione culturale è questa qui», sibila. «Questo è quello che importa, il resto è niente».
Forse non poteva esserci spiegazione migliore del modello di azienda piatta che ormai contraddistingue FCA. Azienda orizzontale o a bassa gerarchia non vuol dire assenza di capi né anarchia, ma un preciso modello di business. Il manager italo-canadese praticava il suo credo fin nei dettagli. Odiava la separazione fisica dei manager più importanti dal resto dell’azienda. Odiava i simboli (verticali) del potere, a partire dalle «torri d’avorio» dei palazzi. Marchionne ha imposto la chiusura di tutte le «palazzine uffici» nelle fabbriche e nei centri direzionali, ovunque ha potuto, compresa la sua. Ad Auburn Hills, l’enorme quartier generale della Chrysler, che per estensione è il secondo edificio più grande degli Stati Uniti dopo il Pentagono, chiuse l’accesso al suo ufficio collocato su una torretta al dodicesimo piano. Lui – come fece vedere in tv durante una puntata di Sixty Minutes della Cbs – lavorava in un normalissimo ufficio al secondo piano introdotto, sulla porta, da una targa minuscola con il suo nome esattamente della stessa dimensione di quella dell’anonimo ingegnere che occupava l’ufficio di fronte.
Poche settimane fa, Mike Manley ha riaperto il mega-ufficio al dodicesimo piano della torre di Auburn Hills. Ma il manager inglese non ha intaccato l’orizzontalità imposta da Marchionne, né a livello della prima linea di management raggruppata nel Gec (General Executive Council), come vedremo, né nelle fabbriche, la cui anima, come ampiamente illustrato nei capitoli dedicati agli stabilimenti, è ormai strutturalmente piatta.
Qui aggiungiamo solo alcuni altri dettagli sull’orizzontalità della cultura FCA, che viene messa in mostra da tre video pubblici sulla vita interna aziendale. Uno è Happy Melfi con gli operai che ballano in fabbrica di cui abbiamo già parlato nel Capitolo 2, un altro è un filmato di 44 minuti girato in Michigan in occasione della festa per l’avvio della produzione di un nuovo modello nello stabilimento di Sterling Heights.
Forse, però, il documento più significativo sulla religione dell’orizzontalità praticata in Fiat Chrysler è quello fornito il 13 maggio del 2014 dall’inaugurazione di un piccolo plant di componentistica in un minuscolo paesino dell’Indiana, Tipton. Si tratta di un commovente discorso del responsabile sindacale del plant, Richard Boruff, che, ripercorrendo la storia della riapertura della fabbrica chiusa più volte dalle precedenti gestioni, ringrazia «Sergghio» per «averci permesso di mantenere la nostra dignità».
A quel punto Marchionne e Boruff si abbracciano. La fusione fra il maglione nero del manager e la maglietta rossa del sindacalista fece molto rumore in America. Larry Vellequette, il giornalista di autonews.com che all’epoca seguiva Fiat Chrysler, colse il senso più profondo della scena alla quale aveva assistito. «Un evento del genere sarebbe stato impossibile in un’altra azienda», sottolineò Vellequette. «Il fallimento del 2009 ha costretto Chrysler a cambiare nel profondo la sua cultura aziendale, cosa che non è successa a GM che pure ha portato i libri in tribunale ma ha continuato semplicemente a pensare di essere troppo grande per fallire».
In tutti e tre i video tira aria di teatro aziendale, non c’è dubbio, ma una loro lettura in filigrana fornisce alcuni filamenti del Dna di Fiat Chrysler e della fabbrica come tempio dell’orizzontalità.
Chi sono i protagonisti dei tre film? A sorpresa non solo Marchionne, ma gli operai-massa o, meglio, i lavoratori-massa Fiat Chrysler, con direttori-massa indistinguibili dai sottoposti. Infatti, il primo segnale che salta all’occhio è che in fabbrica non si nota più la differenza fra colletti bianchi e tute blu. Nei due video americani c’è poi un ruolo notevole del sindacato, il cui simbolo affianca quello dell’azienda sul palco. La location? Torna a dominare la scena la fabbrica-gioiello, il processo produttivo, il «ben fatto» della vecchia aristocrazia operaia, di cui il prodotto-auto (assente nei video) è solo un corollario. La sceneggiatura, infine, è scritta su un asse orizzontale (di nuovo!) azienda-dipendenti-sindacato (esplicito in Michigan e in Indiana, sottotraccia in Basilicata), tessuta non più sull’asse verticale dell’ordine fordista e cioè dall’alto in basso: padrone-manager-operaio, o viceversa quando si sciopera. Si indovina invece un complesso sistema di intrecci orizzontali, a partire dall’uso delle parole, che sembrano il vero collante dell’apolidia transatlantica di FCA. Collante che trova uno dei punti di riferimento culturali nel libro – che Marchionne citava spesso – Il mondo è piatto, del premio Pulitzer Thomas Friedman.
La fusione fra il maglione nero del manager e la maglietta rossa del sindacalista fece molto rumore in America
Il primo segno orizzontale trasmesso dai video sta nel linguaggio, visivo e parlato. Nel film di Sterling Heights, per esempio, Marchionne parla agli operai («We are ordinary people», dice il direttore Tyree Minner passandogli la parola) con toni a bassa frequenza, privi di leaderismo, semplici ma non semplicisti, diretti e a-gerarchici. Li ringrazia: «Non per quello che fate, ma per quello che siete». Dice loro: «Abbiamo investito un miliardo di dollari nelle attrezzature ma quello che farà la differenza è come le userete». Sottolinea: «Le mie non sono parole vuote ma una testimonianza di valori condivisi, forgiati dai nuovi posti di lavoro». E ancora: «Siete voi le vere star».
Star di che cosa? Il primo a intuirlo è stato Giorgio Airaudo, collaudato dirigente della Fiom torinese ed ex parlamentare di Sel. A Il Fatto quotidiano, commentando Happy Melfi, disse: «Il modello di relazioni aziendali che propone la Fiat di Marchionne è che i lavoratori sono cosa sua».
E questo è il punto: quale azienda? Quale fabbrica? I video mostrano fabbriche belle, luminose, specchiate. Giardini della cultura orizzontale. Fabbriche popolate da gente che ha sradicato anche il primo simbolo della verticalità: l’abito. A Melfi è lampante: tutti ballano in tuta, al montaggio o negli uffici. Il direttore-massa di Melfi, anch’egli immortalato in tuta, è forse il più orizzontale di tutti.
Anche la gente di Sterling Heights è spinta a uniformare il vestiario. Nel video americano la maglietta rossa indossata da molti operai e dal direttore è stata distribuita dal sindacato (non dall’azienda) con la scritta «I believe» («Ci credo»). E persino a Tipton, Marchionne e Boruff sono credibili quando si abbracciano perché il loro abbigliamento informale li fa appartenere alla stessa squadra.
Insomma, i tre film offrono indicazioni sul nuovo baricentro aziendale di Fiat Chrysler decisamente più basso che in passato, anche per l’appiattimento del vertice aziendale rappresentato dai ventuno manager del Gec, anche loro chiamati a fare squadra. Ecco il senso profondo dei tre video: il racconto di una trasformazione culturale complessa, l’emergere dell’assegnazione del processo di creazione del valore aggiunto, un tempo affidato esclusivamente alle aree dirigenziali e dei quadri, anche a fasce operaie qualificate. Il processo marcia su due gambe: un operaio-massa consapevole, molto diverso da quello anonimo di qualche anno fa, ma anche capi-quadri e dirigenti irriconoscibili rispetto a quelli della marcia dei quarantamila del 1980 in Italia e a quelli americani chiusi nelle loro torri d’avorio che hanno portato l’industria Usa a perdersi nei labirinti finanziari che sfociarono nella Grande Crisi del 2008.
*da: Fabbrica futuro. Lavoro, contratti smart, azienda a bassa gerarchia, rivoluzione della mobilità, tecnologie. FCA, gli operai 4.0 e l’Italia nell’era post-Marchionne. Di Marco Bentivogli e Diodato Pirone, Egea (2019)