Siamo dunque al «divorzio» tra Pil e occupazione? I sorprendenti dati diffusi dall’Istat giovedì 9 e riferiti a occupati e disoccupati del mese di novembre 2019 lasciano prefigurare proprio questo scenario. In sostanza mentre il Pil del 2019 ha seguito l’andamento dello zero virgola, tutti gli indicatori che riguardano il mercato del lavoro parlano di record raggiunti (il massimo storico dal 1977). Aumentano gli occupati permanenti, diminuisce seppure di poco la quantità dei contratti a termine e migliora nettamente anche il tasso di inattività. Insomma, a leggere i dati di novembre, viene da dire che almeno su un versante possiamo essere soddisfatti ma non la pensano così gli analisti del mercato del lavoro che tirano in ballo altri numeri e tendenze.
Nella sostanza crescono le teste ma scendono le ore lavorate, come se l’occupazione si fosse frantumata e spezzettata in tante fette, la cui somma però al momento del peso finale risulta inferiore. Bisognerà aspettare ulteriori rilevazioni, proprio sul monte ore lavorate e la quota per dipendente, per comprovare questa tesi che segnerebbe «il trionfo dei lavoretti» ma per ora la spiegazione è in linea con la fenomenologia che tutti possiamo registrare.
Basta pensare a ciò che avviene nel campo della ristorazione nelle grandi e medie città, al turnover delle insegne e del personale oppure osservare le dinamiche legate al settore della logistica e del commercio elettronico. Si potrebbe aggiungere che il sistema economico che prima recuperava flessibilità con il ricorso frequente ai contratti a termine oggi la recuperi grazie alla diffusione del part-time involontario e dei mezzi lavori. Va da sé che non si tratta di «buona flessibilità» perché pur tutelata (ripetiamo che i posti in crescita sono permanenti) è comunque sottoposta alle brusche oscillazioni del mercato che portano in quei settori ad aperture e chiusure d’impresa a dir poco repentine.
La conseguenza che si può trarre è dunque che nel 2019 hanno tirato più i servizi che la manifattura ma purtroppo si tratta di un terziario molto debole, a basso valore aggiunto e altrettanto bassa produttività. Sono i servizi che segnano il passaggio di qualità delle economie moderne ma in Italia più che altrove la composizione del settore è fragile e non competitiva.
Il fenomeno riguarda, seppur in proporzioni differenti, anche i punti alti dell’innovazione italiana (Milano) e non è sufficientemente inquadrato e studiato. Il tema del nostro terziario low cost non riesce a entrare in agenda, non solo della politica ma anche delle forze sociali.
Ieri poi l’Istat ci ha detto un’altra cosa: dopo mesi di arretramento della produzione industriale a novembre abbiamo registrato una minima inversione di marcia (un +0,1% su ottobre), un pallido raggio di sole che non modifica nella sostanza il dato anno tendenziale del solo 2019 (-1,1%) e non autorizza grandi speranze per il 2020.
È vero che l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo non esclude una produzione industriale in territorio positivo anche per dicembre ma il cosiddetto “quadro prospettico” non cambia di molto. Non ultime, le indagini sulla fiducia non segnalano ancora un’inversione di rotta in senso espansivo e quindi “l’industria rimane un freno al Pil”.