L’eliminazione di Qassem Soleimani da parte dei droni del Pentagono è un tassello della sfida strategica che vede la regione del Grande Medio Oriente – dal Maghreb all’Afghanistan – contesa fra quattro potenze portatrici di interessi rivali: l’Iran di Ali Khamenei, la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, la Russia di Vladimir Putin e gli Stati Uniti di Donald Trump. È uno scenario che contrappone leader, armamenti, risorse ed alleati in un mosaico di conflitti di dimensioni e intensità variabili ma con una costante: la determinazione di ognuno dei quattro rivali ad imporsi sugli altri. Nell’evidente assenza di protagonisti europei per le lacerazioni interne all’Ue e l’incapacità di chi tenta di agire da solo – come la Francia in Maghreb – di ottenere risultati capaci di essere durevoli.La Mezzaluna sciitaL’Iran punta all’egemonia sul Medio Oriente sfruttando l’indebolimento degli Stati arabo-sunniti per affermare i propri interessi. Lo strumento sono le milizie sciite locali create, armate, addestrate e guidate dalla Forza Al Quds dei Guardiani della rivoluzione, guidata negli ultimi 22 anni da Qassem Soleimani. Gli Hezbollah in Libano, le milizie sciite che hanno salvato il regime di Assad in Siria e i nuovi Hezbollah iracheni formano una «Mezzaluna sciita» che consente di avere una continuità territoriale dall’Iran alle coste del Mediterraneo, premendo da Nord sul nemico di sempre: l’Arabia Saudita leader dell’Islam sunnita. L’intento di Khamenei è assediare i sauditi e per questo la Forza Al Quds sostiene anche i ribelli houthi in Yemen – che bersagliano l’Arabia con droni e incursioni – e tenta di fomentare rivolte sciite nelle regioni saudite orientali e nel Bahrein.
L’altro tassello è Gaza, dove l’Iran arma la Jihad islamica palestinese pianificando un conflitto contro Israele anche qui su più fronti: Hezbollah da Nord, milizie sciite dalla Siria e jihadisti palestinesi dalla Striscia.La strategia iraniana è assediare Arabia Saudita ed Israele con conflitti ibridi affidati a milizie e guerriglie per trasformare la «Mezzaluna sciita» nell’unica area di stabilità e sicurezza regionale. A tal fine serve anche il controllo delle rotte marittime: da qui la crescita delle attività navali dei pasdaran con i barchini e le mine nel Golfo capaci di minacciare petroliere straniere e navi della flotta Usa. Ma ciò che più conta in Medio Oriente è proiettare potenza. Da qui i due pilastri della strategia di Khamenei: il programma nucleare – legittimato dall’intesa di Vienna del 2015 – di cui ora l’Aiea sospetta aspetti militari e lo sviluppo di un formidabile arsenale balistico inclusi missili intercontinentali capaci di portare testate atomiche.il piano neo-ottomanoIl presidente turco ha l’ambizione di strappare all’Arabia Saudita la leadership dell’Islam sunnita e per farlo si muove su tre teatri. Il primo è la Siria dove gli interventi di terra contro i curdi ad Afrin e nel Nord hanno creato altrettante enclave trasformando Erdogan nel protettore dei sunniti davanti al risorto regime di Assad. Il secondo è il sostegno alla Fratellanza Musulmana ovvero il movimento sunnita che professa l’Islam politico ed è considerato da Riad il suo più pericoloso avversario.
In questa scelta Erdogan ha per alleato il Qatar, con cui ha siglato un accordo strategico che prevede anche truppe turche a Doha. Ovunque vi sono Fratelli musulmani arriva il sostegno turco: avvenne in Egitto quando il presidente era Morsi, avviene ora a Tripoli e Misurata a sostegno del presidente Feyez al-Sarraj. Anche fra i palestinesi di Gerusalemme Est e gli arabo-israeliani in Galilea Erdogan si fa spazio grazie alla Fratellanza. Il terzo teatro è invece il Corno d’Africa dove imprese turche operano porti, aeroporti e ferrovie nell’area di Mogadiscio al fine di ipotecare le rotte fra l’Oceano Indiano ed il Mar Rosso. La corsa alla leadership sunnita rispolvera l’eredità ottomana della Turchia, consentendole di riacquistare un ruolo di leader negli stessi spazi, dal Maghreb al Golfo Persico, che appartennero al Sultano di Costantinopoli prima dei moderni Stati arabi.Il domino russoDall’intervento militare in Siria nel settembre 2015, Putin persegue l’obiettivo di riassegnare alla Russia il ruolo da protagonista in Medio Oriente che aveva l’Urss fino al 1991. E lo fa con la tattica del domino: una mossa dopo l’altra, in rapida successione, avanzando ove possibile. Aver salvato il regime di Assad dal crollo gli garantisce non solo le basi aeree e navali sul Mediterraneo ma una piattaforma operativa sulla quale ha cementato intese con i maggior partner della regione: con Iran e Iraq contro i jihadisti sunniti, con la Turchia per porre fine alla guerra civile siriana, con Israele per la sicurezza nei cieli.
E adesso sta ripetendo l’operazione in Libia: l’invio dei mercenari di «Wagner» a fianco del generale Haftar segue intese con l’Egitto ed i Paesi del Golfo sebbene siano alleati di ferro di Washington. Ovunque Putin si presenta come il difensore della stabilità degli Stati arabi esistenti, l’avversario spietato dei jihadisti e il garante di equilibri inclusivi con tutti tranne gli Stati Uniti, che punta a indebolire ovunque. Anche nelle acque dell’Oman con le inedite manovre navali con Iran e Cina. Dietro a tutto ciò c’è la volontà di assicurarsi il controllo delle rotte del gas naturale nel Mediterraneo Orientale e nel Golfo che potrebbero competere con i propri giacimenti. E poi c’è la novità del soft power russo: reti tv e siti web in ogni lingua regionale per imporsi anche sul fronte dei media.Il ritorno degli UsaKhamenei, Erdogan e Putin sono diventati protagonisti in Medio Oriente sfruttando abilmente gli errori dell’amministrazione Obama – dall’instabilità creata in Libia nel 2011 al mancato intervento in Siria nel 2013 fino all’avallo al nucleare iraniano nel 2015 – a cui ora Donald Trump vuole porre rimedio con una strategia su quattro binari. Primo: guerra senza quartiere a Isis e gruppi jihadisti come l’eliminazione di Al-Baghdadi ha dimostrato. Secondo: rafforzare l’alleanza con Stati sunniti e Israele, portandoli ad un patto regionale sulla sicurezza e il commercio. Terzo: assediare l’Iran con sanzioni economiche e pressione militare – come il raid contro Soleimani conferma – per far deragliare la «Mezzaluna sciita». Quarto: ridefinire la presenza strategica nella regione con unità aeronavali e armamenti hi-tech, ma diminuendo i contingenti di terra ereditati dai predecessori. Si spiegano così anche i negoziati in Afghanistan con i taleban per porre fine all’intervento iniziato nel 2001.