Un paio d’ore di incontro all’ora di pranzo. Tanto è durato ieri il confronto tra i tecnici del Mise e del Mef con i rappresentanti di ArcelorMittal. Il tempo sufficiente alla delegazione guidata da Francesco Caio per illustrare il piano industriale del governo per Ilva. Ma subito dopo la presentazione del cosiddetto contropiano è arrivata da Taranto la notizia che rischia di far saltare ogni mediazione: il giudice della seconda sezione penale Francesco Maccagnano ha negato la proroga chiesta da Ilva in amministrazione straordinaria per l’uso dell’Altoforno 2 (da parte di ArcelorMittal), nonostante la Procura, lunedì, avesse espresso parere favorevole. Il tempo in più servirebbe per gli ulteriori lavori di sicurezza.
A questo punto, con la scadenza per mettere a norma l’Afo2 che resta fissata al 13 dicembre, l’impianto rischia il nuovo sequestro e il riavvio del cronoprogramma per lo spegnimento. Anche se l’Ilva in amministrazione straordinaria impugnerà al Tribunale del Riesame il provvedimento di Maccagnano e tutto potrebbe tornare in ballo.
Tornando al piano illustrato da Caio ad ArcelorMittal, Morselli e il suo staff hanno preso appunti. Nessun confronto o contraddittorio: subito dopo le due parti del tavolo si sono lasciate e Morselli ha si è riservata di dare una risposta a stretto giro. Non è escluso addirittura oggi. Il piano prevede una produzione di 8 milioni di tonnellate di acciaio entro il 2023, con allargamento della cassa integrazione, oggi limitata a circa 1.300 lavoratori, e passaggio dell’ammortizzatore da ordinario a straordinario. Degli 8 milioni di tonnellate, 5,4 sarebbero prodotti attraverso gli altiforni 4 e 5. A questi si aggiungerebbero due forni elettrici per altri 2,6 milioni di tonnellate di acciaio. Ma sarebbe necessario un impianto per la produzione di Dri, Direct reduced iron, il preridotto che serve a caricare, appunto, i forni elettrici. Tutto questo vale circa 3 miliardi di investimenti. Di questi, circa 700 milioni li metterebbe lo Stato e sarebbero finalizzati alla parte «ecologica» dell’ex Ilva, quindi in particolare all’impianto che produrrà il preridotto. Alla fine in carico ad ArcelorMittal resterebbero gli oltre 2 miliardi di investimenti originari.
Il contropiano del governo è certamente distante dalla posizione di ArcelorMittal, quella messa nero su bianco nelle slide del nuovo piano industriale illustrato il 4 dicembre scorso al Mise da Morselli, con 4.700 tagli, di cui 2.900 subito. Gli attuali 10.789 dipendenti — quelli del piano originario firmato il 6 settembre 2018 — scenderebbero a 6.098 nel 2023, con 2.891 esuberi dal 2020 e altri 1.800 nei tre anni successivi, con la produzione che dai 4,5 milioni di tonnellate attuali potrà risalire fino a 6 milioni dal 2021 con l’utilizzo di un forno elettrico.
Ma adesso, nella distanza tra le due parti, si è inserita anche la questione Afo2. Che era uno dei due motivi — insieme allo scudo penale rimosso — che aveva indotto ArcelorMittal a comunicare il recesso lo scorso 4 novembre. Da allora, nessuno dei due punti è stato rimosso.
«Con la fermata dell’Altoforno 2 — ha evidenziato nella serata di ieri il segretario generale della Uilm Rocco Palombella — si prefigurano scenari preoccupanti che potrebbero portare fino alla chiusura dello stabilimento». E così lo stop di ieri per lo sciopero — 90% di adesioni a Taranto e 80% a Genova e Novi Ligure — potrebbe diventare per sempre.