Uno parla con Carlo Mazzi e, prima cosa, butta a mare un bel po’ di banalità. Lui è il presidente di Prada spa, la capogruppo. Prada è uno dei leader indiscussi del lusso globale. E qua scatta l’equazione: moda uguale genialità creativa. È corretta, per carità. Però è anche molto, molto basic. Rinchiude un intero settore industriale, peraltro simbolo per eccellenza del miglior made in Italy, in un mondo a parte. Quasi non fosse davvero manifattura e non valessero, per il lavoro che sta dietro i flash di una passerella, le stesse regole del successo di qualunque altro tipo di impresa.
Invece, ingegnere?
«Invece il tema è, è vero, la creatività. Ed è vero che è la prima condizione del successo. Ma vale per tutti. Nella meccanica, nella chimica, nella farmaceutica – e cito solo alcuni esempi – abbiamo industrie che all’estero ci invidiano esattamente come accade per i marchi della moda. È così perché sappiamo innovare. E non si innova se non si è creativi».
Un freno di Alberto Bombassei, o una macchina utensile di Alberto Vacchi, come un abito di Miuccia Prada?
«Di fondo, sì. Noi italiani non stiamo passando un bel momento, come Paese, ma poi ci guardiamo intorno e scopriamo che le nostre aziende hanno una tale reputazione da partecipare, per dire, allo sviluppo di programmi internazionali nell’aerospaziale. Siamo spesso all’avanguardia, in molti settori. Non so se sia una questione di Dna, ma è certo che il tratto in comune è, da sempre, la nostra forza creativa e la nostra capacità di declinarla in tante forme».
E quindi di creare prodotti innovativi. È sufficiente, a conquistare i mercati?
«Diciamo che è la base dello sviluppo. L’azienda si crea con quei due fattori: il prodotto e il mercato. Dopodiché arriva sempre un momento in cui, se l’imprenditore vuole continuare a crescere, ha bisogno di un terzo elemento: l’organizzazione. Strutturare un’azienda, darle una governance, inserire dei manager è fondamentale. Una necessità assoluta. In questo però in Italia non siamo così bravi».
Perché?
«Un po’ siamo individualisti. Teniamo alla proprietà familiare, e questo ci sta: è ovvio che chi ha fondato un’attività imprenditoriale di successo senta l’azienda come una sua creatura. Aggiungo che è una fortuna, che le famiglie non cedano il controllo».
Ma?
«Ma per crescere devono aprirsi e farsi affiancare. Alcune di queste imprese si sono perse per questo, perché le famiglie si sono tenute strette le leve di proprietà e gestione. Paradossalmente, è la ragione per cui a un certo punto c’è chi vende tutto agli stranieri, ben felici di comprare in Italia».
Parecchi dei trenta Champions del Sistema Moda, come degli altri settori-traino del Pil italiano, stanno in effetti già applicando il consiglio. Altri no, per loro il principio del controllo assoluto di capitale e gestione è intoccabile. Non vedono abbastanza lontano? L’alta redditività offusca la visione sul lungo periodo?
«Distinguiamo. È naturale, e anche giusto, che la prima generazione tenga saldo il controllo di ciò che ha creato. Ma la seconda generazione no, non può restare chiusa in famiglia. Quando succede, prima o poi la crescita si interrompe».
A proposito di generazioni. Questa al comando adesso, che sia la prima o addirittura la quarta, sembra comunque una generazione di svolta. Sono quasi tutti imprenditori attenti alla sostenibilità, e quasi tutti per una profonda convinzione. Prada Group è stato un precursore, in tempi non sospetti. Non le chiedo quanto ci sia di marketing, in questa nuova, generale attenzione, e quanto di consapevolezza vera, però: condivide ciò di cui sono convinti i nostri Champions,ovvero che la sostenibilità sociale e ambientale, oltre che economica, sia ormai un imprescindibile «fattore immateriale» di successo?
«Certamente. E credo anche che non sia opportunismo. È ovvio che un’azienda debba fare utili, è il suo scopo, ma pensi solo a com’è cambiato un concetto. Ancora pochi anni fa quando si parlava di “creazione di valore” si aggiungeva “per gli azionisti”. Oggi di dice “per tutti gli stakeholder”, il che mi fa già più contento. Il salto vero è però creare valore per la società. C’è chi lo fa. E sono queste, le imprese leader».
È il concetto dell’«impresa sociale» degli Olivetti, dei Marzotto, dei Merloni nell’Italia della ricostruzione? Sembravano utopie, e comunque le avevamo sepolte sotto i sospetti di paternalismo.
«No, erano valori reali. E sì, li avevamo persi. Ma nel frattempo è successo che anche il mondo ha perduto i suoi due modelli di riferimento, il socialismo e il liberalismo. Le ideologie hanno travolto gli ideali e, caduti quelli, la società si è ritrovata senza riferimenti valoriali. Oggi scopriamo che qualcosa che può fare da collante tra le nuove generazioni c’è. È la sostenibilità, nelle sue varie articolazioni, ed è la nuova frontiera dello sviluppo sociale».
L’impresa, i bilanci, gli utili: come si incastrano? Perché lo sa, vero, che qualcuno la metterà sul piano del puro, cinico calcolo.
«Può essere. Ma anche l’imprenditore è un attore sociale, e io credo che oggi abbia effettivamente una consapevolezza nuova del suo ruolo nello sviluppo della società. Se fa più utili, ma contribuisce a quello sviluppo oltre che a quello della sua azienda, qual è problema?».
*L’Economia, 18 novembre 2019