Ilva è una lezione su come buttare dieci miliardi di euro e restare con un relitto industriale. Dopo la chiusura dell’Altoforno 2, la produzione dell’acciaio a Taranto finisce infatti fuori mercato. Perché questa attività sia in pareggio, occorrono al massimo 1.300 addetti per ciascun milione di tonnellate prodotte ogni anno. All’Ilva oggi gli addetti per ogni milione di tonnellate sono 2.300, al costo medio 48 mila euro l’anno. Troppi per evitare forti perdite. La Am Investco dei Mittal era comunque vincolata dal contratto a mantenere i dipendenti almeno fino al 2023. Ha potuto svincolarsi senza penali solo perché l’attuale governo, sulle orme del precedente, è corso in suo aiuto violando una condizione di base del contratto: l’immunità penale nell’attuare le bonifiche. Questo errore costerà carissimo. La fattura dell’intera vicenda per i conti pubblici alla fine potrebbe infatti raggiungere i sei miliardi. A un miliardo circa ammontano le perdite di esercizio dell’amministrazione straordinaria di governo (gennaio 2015-ottobre 2018). Mittal chiederà poi di rivalersi sullo Stato per i 300 milioni spesi in bonifiche nell’ultimo anno, mentre solo per rendere sicuro l’impianto spento serviranno altre bonifiche per un miliardo. Ci sono poi i 12.500 dipendenti Ilva, dove la cassa integrazione riconosce oggi 22 mila euro l’anno in media. L’indennità per tutti costa almeno 250 milioni l’anno, circa 3,5 miliardi fino a che i disoccupati ex Ilva andranno in pensione tra una quindicina d’anni. Inoltre, lo Stato rinuncia a quattro miliardi di investimenti a cui erano vincolati i Mittal. In tutto dieci miliardi in costi e ammanchi. In cambio, i due governi a guida M5S otterranno un risultato unico: chiudere per sempre il più grande impianto dell’acciaio in Europa.