In materia economica il governo in carica pensava di doversi dedicare quasi esclusivamente alla manovra di fine anno e alla scelta-chiave di sterilizzare l’aumento dell’Iva. Giuseppe Conte e il suo principale alleato Nicola Zingaretti non avevano messo in conto che sarebbe scoppiata, nei primi mesi della nuova esperienza governativa, la questione industriale. Per chi non ne fosse convinto mi limito ad elencare i principali dossier: rischio chiusura dell’Ilva, nuova corsa contro il tempo per evitare il fallimento dell’Alitalia, raggiungimento di un’intesa Fca-Peugeot (che non penalizzi gli stabilimenti italiani), riconversione tecnologica dell’automotive verso l’elettrico, messa in vendita del gioiello Comau con possibile passaggio ai cinesi. Di fronte alla complessità di questi dossier — e ai dati della produzione industriale in calo — il governo appare nudo, non c’è al suo interno una personalità che abbia visione su questi temi e sia riconosciuto dalla comunità del business come un interlocutore di vaglia.
Colpisce in particolare che il Pd, un partito fortemente insediato tra le élite (e in questo caso è un complimento) e con valide competenze «d’area», non esprima sui nodi che interessano il partito del Pil un pensiero chiaro. Quello che vale per l’impresa vale anche per il lavoro, materia che sembra consegnata dalla sinistra in outsourcing ai Cinque Stelle. Tanti convegni sulla disuguaglianza e nessuna proposta concreta per riparare il mercato del lavoro e il reddito di cittadinanza.
Torniamo però all’industria. Siamo la seconda potenza manifatturiera d’Europa grazie al maggior valore aggiunto delle nostre imprese ma rischiamo seriamente il sorpasso francese. Sottolinearlo è utile per capire cosa c’è in ballo: il rischio di perdere il vantaggio competitivo sul quale si sono fondate le fortune del made in Italy. Le condizioni esterne non sono certo favorevoli: il combinato disposto tra trasformazione digitale, rivoluzione green e tentazioni neo-protezionistiche metterebbe e mette alla frusta qualsiasi sistema, figuriamoci il nostro. Nel recente passato l’industria italiana ha saputo mettersi alle spalle l’illusione che per vincere bastasse produrre scarpe in Romania e Tunisia e ha scelto di scommettere, con successo, sulla manifattura di qualità. Ma per conservare la posizione attuale c’è solo una carta da giocare: più investimenti. Privati, pubblici e delle multinazionali. Bisogna dunque convincere le aziende, più redditizie e patrimonializzate di ieri, a non tenere la liquidità parcheggiata nei conti correnti (secondo i dati Intesa-Prometeia i depositi delle imprese non finanziarie tra il 2012 e il 2019 sono cresciuti di 128 miliardi) ma a investire nel digitale, in nuove soluzioni organizzative e in capitale umano. Il governo e la politica dovrebbero accompagnare quest’impegno con scelte coerenti perché altrimenti chiunque conquisterà il potere nei prossimi anni avrà sotto di sé un Paese di serie B e avrà visto nel frattempo crescere l’emigrazione di talenti italiani di tutte le età.
Purtroppo quello che vediamo in questi giorni va in direzione opposta. La logica del corto respiro ha portato il governo ad adottare la politica delle microtasse punitive che hanno solo esacerbato le imprese come dimostra la forte presa di posizione delle Confindustrie del Nord. Sull’Ilva si è agito con colpevole leggerezza e si è fornito l’alibi alla fuga di ArcelorMittal. Per la crisi dell’auto si è inaugurata, a parole, la strategia dei sotto-tavoli ma intanto non è ancora stato convocato nemmeno uno sgabello. Per Alitalia rischiamo il 21 novembre di dover deliberare l’ottava proroga della gestione commissariale. In compenso grazie all’operato dell’ex ministro Luigi Di Maio abbiamo scompaginato il ministero dello Sviluppo economico e allargato le distanze tra istituzioni e comunità del business. La sensazione prevalente è che il governo giallorosso non abbia a cuore la cultura della crescita bensì che al suo interno prevalgano i cultori del risarcimento assistenziale e del ridimensionamento della manifattura. Dalla coalizione Ursula siamo passati all’egemonia Barbara (Lezzi). La Lega è già forte di suo al Nord e francamente non avrebbe bisogno di ulteriori regali .