Prendiamo, per esempio, la Tac. Che cosa sia, a cosa serva, quanto sia ormai di routine in qualunque ospedale lo sappiamo (suppergiù) tutti. Quel che non sappiamo, a meno di non lavorare nel ramo, è che una Tomografia assiale computerizzata su tre è firmata Bracco Imaging. Non in Italia: nel mondo. Suoi sono i prodotti, sua è la relativa tecnologia. Una leadership assoluta, qui come per altri mezzi di contrasto della diagnostica per immagini, che fa della società guidata da Fulvio Renoldi Bracco – nipote di Diana, presidente e amministratore delegato del gruppo di cui la Imaging rappresenta il core business – uno dei quattro grandi nomi del settore a livello globale. I francesi di Guerbet sono un po’ più piccoli della multinazionale milanese (790 milioni di fatturato contro gli 1,29 miliardi di Bracco Group). Gli altri due sono colossi multinazionali a tutto campo. E battersela alla pari con una General Electric e una Bayer, spesso vincendo la sfida, significa essere davvero al top dell’innovazione. Come lo sono i Champions individuati da L’Economia e ItalyPost nella nostra chimica-farmaceutica, i piccoli-medi imprenditori che hanno scelto una nicchia di mercato, in quella si sono specializzati al punto da non avere quasi rivali e, a forza di investimenti, esportano, crescono, guadagnano a ritmi record. Per ciascuno di loro l’obiettivo è non fermarsi, continuare a crescere, diventare una delle Bracco di domani. Venerdì, nell’incontro organizzato da L’Economia e Italy Post all’Università Bocconi, racconteranno le loro storie e si confronteranno direttamente con Renoldi Bracco. Il quale sa, ovviamente, che al suo gruppo si guarda come a un modello. Ne è orgoglioso. Ma premette: «Più che insegnare, avrò da imparare».
Dicono che non smettere di farlo sia uno dei segreti del successo. Però è una condizione necessaria, non sufficiente.
«No, certo. Servono l’intuizione, le persone, il momento giusto. Il coraggio di investire e anche di cambiare pelle, se è il caso. Il gruppo Bracco l’ha fatto una prima volta negli anni 50, quando ha deciso di puntare sulla diagnostica per immagini».
In anticipo sui tempi.
«È stata la grande intuizione di mio nonno Fulvio. Negli anni, con Diana e con uno staff di alto livello, abbiamo scelto di concentrarci qui, sui mezzi di contrasto per Tac, risonanza magnetica, ecografie, medicina nucleare».
Il che presuppone grossi investimenti in Ricerca & Sviluppo.
«Mai smettere anzi: più i momenti sono difficili, più bisogna insistere».
Voi quante risorse dedicate?
«In media, il 9% del fatturato. Ma è questo ad averci permesso una serie di svolte. La prima negli anni ‘80, quando abbiamo sviluppato un mezzo di contrasto, lo iopamidolo, che è ancora il prodotto di riferimento per l’intera comunità scientifica internazionale. Oggi, con oltre duemila brevetti, nel settore siamo la seconda azienda al mondo e abbiamo uno dei portafogli più completi».
Questo, e la storia dei Champions, smentisce tra l’altro un luogo comune: che l’Italia sappia fare fantastici abiti, bellissimi mobili, ottima cucina, ma sia fuori dal circuito dell’innovazione scientifico-tecnologica.
«Certamente non vale per le aziende, almeno non per tutte. Sa perché, nel nostro settore, le grandi multinazionali estere puntano a comprare o comunque a essere presenti in Italia? Perché qui trovano eccellenze, competenze e ottimi leader. Anche tre le piccole e medie imprese: scelgono una specializzazione, investono, producono innovazione di livello mondiale, realizzano all’estero la quasi totalità dei loro ricavi. Però, poi, resta il problema di continuare a crescere. Arriva un momento in cui non basta più esportare: occorre internazionalizzare la produzione, gli investimenti, la ricerca».
Voi lo avete fatto anche con le acquisizioni. L’ultima, pochi mesi fa: Blue Earth Diagnostic, quotata a Londra, investimento da 450 milioni di dollari. A proposito di «insistere», soprattutto nelle fasi difficili.
«È stato possibile perché abbiamo avuto un grande supporto dalla famiglia, ovviamente, e insieme dal sistema bancario. E abbiamo una buona capacità di autofinanziamento».
Grazie a quali tassi di redditività?
«Il gruppo ha un Ebitda del 16%, il core business va oltre il 20%».
E reinvestite. Quindi, per tornare a Blue Earth?
«Diana Bracco e io abbiamo lanciato un segnale chiaro ai mercati: non solo l’azienda non è in vendita, ma continua a crescere e ad arricchire il proprio portafoglio prodotti acquisendo un’impresa innovativa con grandi potenzialità nel campo della ricerca oncologica. Blue Earth è una nuova tappa cruciale, che cade a 25 anni esatti da quella che fu l’acquisizione più importante per il gruppo. È con la Squibb Diagnostic che la famiglia Bracco è sbarcata negli Usa. Affrontare la sfida del confronto permanente con la Food and Drugs Administration ha aggiunto un ulteriore plus alla qualità dei nostri prodotti e processi produttivi».
Se l’imperativo è «non fermarsi», avrete anche già immaginato la Bracco non di domani: di dopodomani.
«I prossimi saranno anni di forti cambiamenti, per il settore, perciò tutti dovremo cambiare le nostre competenze. Necessariamente. Medicina personalizzata, big data, intelligenza artificiale… Si va lì. E lì ci troverete».
*L’Economia, 11 novembre 2019