Uno, due. Prima la lettera ai commissari straordinari con cui si annuncia l’intenzione di rescindere il contratto e poi, a distanza di poche ore, un atto di citazione presentato al Tribunale civile di Milano per chiedere il via libera al divorzio. ArcelorMittal non scherza: vuole regolare una volta per tutte i conti col governo. E se Conte e Patuanelli sostengono che «non ci sono i presupposti giuridici» per rompere, ArceloriMittal sostiene l’esatto contrario: non solo che l’accordo non è stato rispettato e va sciolto, ma che ci sono pure gli estremi per rivendicare i danni. Che è quello che i due Mittal, padre e figlio, Lakshmi e Aditya, spiegheranno questa mattina al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Saranno infatti loro in prima persona, in qualità di firmatari delle intese del 2018, a rispondere alla convocazione urgente del governo.
Si rischia un muro contro muro, ma non è detto. La procedura avviata lunedì prevede infatti che gli impianti dell’ex Ilva (e quindi anche i 10.700 dipendenti presi in carico, compresi i 2 mila oggi in cig) vengano restituiti ai commissari entro il 3 dicembre. Insomma c’è tutto il tempo per trattare. Ma è chiaro che dopo l’ultimo sgambetto del Senato con cui è stato tolto ai manager di Arcelor lo scudo penale nonostante le assicurazioni date a suo tempo dal governo, i Mittal adesso facciano molta fatica a fidarsi di eventuali nuove promesse dell’esecutivo.
Grandi avvocati in campo
Per questo, intanto, mandano avanti le carte bollate mobilitando due grandi studi di diritto societario come Gianni Origoni Grippo Cappelli e Partners e Cleary Gottlieb. Sono ben sette i legali che firmano la chiamata in giudizio dell’Ilva in amministrazione straordinaria per conto di AcerlorMittal Italia. In 33 pagine (e 37 allegati) di esposto chiedono l’annullamento del contratto o in subordine «la risoluzione per impossibilità sopravvenuta» oppure «per dolo», o ancora «per inadempimento degli obblighi gravanti sulle concedenti» o per «eccessiva onerosità sopravvenuta».
Le ragioni del divorzio sono le stesse riassunte poi nelle 6 pagine con cui l’ad di AMItalia Lucia Morselli il 4 novembre, esattamente il giorno dopo la fine delle tutele legali concesse in precedenza, ha comunicato ai commissari la volontà di rinunciare al contratto d’affitto dell’ex Ilva. E’ la questione dell’immunità a dare il là alla battaglia legale. «Come previsto nell’offerta vincolante definitiva e nell’articolo 25.9 del contratto, la protezione legale costituiva un presupposto essenziale su cui l’affittuario ha fatto esplicito affidamento e in mancanza del quale non avrebbe neppure accettato di partecipare all’operazione» scrive Morselli.
La cancellazione dello scudo, viene poi sottolineato, «ha un impatto irrimediabilmente dirompente sul contratto perché, fra l’altro, comporta una modifica del Piano ambientale che rende non piú realizzabile il Piano industriale». Tanto più che «da quando hanno appreso che la protezione legale sarebbe stata eliminata – scrive ancora Morselli – numerosi responsabili operativi dell’area a caldo nello stabilimento di Taranto hanno affermato che si sarebbero rifiutati di lavorarvi per non rischiare di incorrere in responsabilità penale». Col risultato che a questo punto «è inevitabile chiudere l’intera area a caldo (a cui le misure del Piano ambientale si applicano prevalentemente) e interrompere la produzione, con conseguente impossibilità sopravvenuta di eseguire il contratto».
Seconda contestazione, il ruolo del Tribunale penale di Taranto. Le cui decisioni. segnala Arcelor, rischiano di determinare lo spegnimento di tutti gli altoforni, non solo dell’Afo2. Mentre il sequestro prolungato del molo 4 ha di fatto limitato enormemente la possibilità dell’ex Ilva di rifornirsi di materie prime. Impedendo comunque il rispetto del contratto anche nel caso venga ripristinato lo scudo. Di qui l’avvio delle ostilità al grido «Recesso, recesso!».