S e fossimo tutti preoccupati per le sorti del pianeta oggi dovremmo discutere e approfondire i risultati del rapporto ASviS, l’Associazione per lo sviluppo sostenibile. È stato presentato venerdì scorso. Meritava un’eco maggiore. Immersi in un eterno presente ci dimentichiamo subito dei grandi temi. Sono schiacciati dalle polemiche di giornata. Spesso li rimuoviamo. Salvo poi parlare di Greta e lodare l’impegno dei giovani senza aver colto il loro drammatico e urgente messaggio di fondo. Tocca a tutti noi farcene carico. Perché solo una grande sensibilità pubblica, un ampio movimento di opinione e una migliore educazione civica orienteranno scelte di governo e strategie aziendali lungo il percorso della sostenibilità. Ovviamente l’esecutivo deve fare la propria parte e dimostrare che il cosiddetto green new deal non è solo uno slogan. Qualche esempio. Il premier Giuseppe Conte ha annunciato all’Onu che il nostro sarà tra i primi Paesi a raggiungere entro il 2050 la neutralità delle emissioni. Bene. Ma occorrerà adeguare, entro fine anno, il Piano nazionale integrato energia e clima approvato dal Conte 1, e ampiamente criticato da B ruxelles perché insufficiente, in particolare sulla decarbonizzazione. Nel f ebbraio scorso — si legge nel rapporto ASviS — il governo gialloverde ha presentato l’analisi di impatto della manovra economica del 2019 sui dodici indicatori di benessere equo e sostenibile. Ma si è fermato a quattro: reddito medio pro capite, disuguaglianza, non partecipazione al mercato del lavoro, emissioni di gas inquinanti.
Le buone pratiche non mancano. Abbiamo tante eccellenze. Molte imprese e amministrazioni all’avanguardia. Ma tantissime aziende italiane non hanno un programma per la sostenibilità ambientale e sociale. Chi lo ha adottato ha una produttività superiore (in alcuni casi del 15 per cento). Crea più valore, occupazione, reddito. Anche il mondo delle banche e della finanza può fare molto di più. I fattori Esg (Environmental, social and governance) sono decisivi nelle scelte dei fondi di investimento. La Banca d’Italia ne ha aumentato il peso nella valutazione del merito di credito ma c’è un problema non indifferente di certificazione dei progressi per distinguerli dalle buone intenzioni o dalle promesse di facciata. Si parla tanto di green bond e l’Italia si appresta a emettere il primo bond sovrano. Ma l’interrogativo più scomodo che si possa rivolgere agli investitori è uno solo: vi accontentereste di guadagnare di meno pur di garantire un beneficio ambientale e sociale? Si attendono risposte.
L’Italia, com’è emerso dal rapporto presentato dal portavoce di ASviS, Enrico Giovannini, ha ottenuto tra il 2016 e il 2017, qualche buon progresso in 9 delle 17 aree di intervento previste dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Ovvero: salute, parità di genere, condizioni economiche e occupazionali, innovazione, modelli sostenibili di produzione e consumo, sviluppo delle città, disuguaglianze, qualità della governance, pace, giustizia e istituzioni solide e, infine, cooperazione internazionale. In due campi, educazione e lotta al cambiamento climatico, siamo rimasti fermi. Peggiorati nei capitoli riguardanti povertà, alimentazione e agricoltura sostenibili, acqua e strutture igienico-sanitarie, sistema energetico, condizione dei mari ed ecosistemi terrestri.
Le raccomandazioni per migliorare le nostre posizioni sono numerose, alcune di semplice buon senso. Andrebbero tutte esaminate e, se possibile, accolte senza tanti indugi. Non sfugge agli osservatori più attenti e meno ideologici che, sulla strada della riconversione produttiva, i soggetti più deboli possono essere ingiustamente colpiti. Questo è un pericolo da evitare, anche perché se vogliamo che cresca una diversa sensibilità dobbiamo scongiurare l’antipatica divisione tra chi la sostenibilità se la può permettere e chi no. Valgono più di 19 miliardi l’anno i sussidi ambientalmente dannosi. In agricoltura e nei trasporti sorreggono però anche attività al limite della sopravvivenza. Cancellarli con un tratto di penna può sembrare la soluzione migliore. Un beneficio per l’ambiente avrebbe una ricaduta sociale dannosa. Una legge che prevedesse lo stop al consumo di suolo probabilmente darebbe un fortissimo impulso alla riqualificazione edilizia con effetti positivi sull’intero settore e sull’occupazione. Ma in tutto il territorio nazionale? I dubbi sono legittimi. Il sentiero è stretto. Va percorso con decisione e senza cambiare idea ogni anno. Con poca coerenza e poca persistenza non si va lontani.
Nell’ultimo rapporto Symbola, di cui è presidente Ermete Realacci, si segnala che sono 345 mila le imprese che negli ultimi 5 anni hanno puntato sulla green economy . Attraggono più capitali, vanno meglio all’estero, innovano e creano nuovi profili lavorativi e professionali. L’Italia viene poi definita una superpotenza nell’economia circolare. È il Paese europeo con la più alta percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti prodotti. Peccato non esista un sufficiente mercato del riuso e la burocrazia lasci indefinita, in diversi settori, la qualificazione di rifiuto (end of waste), con aggravio dei costi. L’incertezza normativa frena il riutilizzo delle materie prime riciclate e lo sviluppo di nuove imprese. Accanto a tutto questo ci sono i rifiuti urbani. Alcune regioni e città hanno indici di raccolta differenziata anche superiori ai livelli europei. Esempi virtuosi. Ma sotto gli occhi di tutti ci sono altri casi, Roma in testa, che fanno impallidire quel record, sudato, di superpotenza nell’economia circolare. Una vergogna. Ogni anno viaggiano sulle strade italiane, diretti in altre regioni o all’estero, 165 milioni di tonnellate di rifiuti urbani su 1,7 milioni di Tir. Uno spreco gigantesco. Poco sostenibile anche e soprattutto per la coscienza civile di un Paese.