Prendendo a prestito una vecchia massima latina potremmo dire «oportet ut Lurisia eveniant», è bene che casi come quello delle bevande Lurisia vendute (a caro prezzo) alla Coca-Cola vengano allo scoperto e generino un’ampia discussione. In breve l’antefatto: Eataly e la famiglia Invernizzi erano gli azionisti di Lurisia, ne hanno fatto un caso di successo ampliando la gamma dei prodotti e sottolineandone la connessione culturale con il territorio nella selezione delle materie prime e nella qualità del manufacturing. Poi l’hanno venduta a 88 milioni di euro alla multinazionale di Atlanta suscitando però l’indignazione di Carlin Petrini dei puristi di Slow food, che hanno visto nella mossa una sorta di spregiudicatezza e di tradimento di Oscar Farinetti, il fondatore di Eataly. È davvero così?
In una recente intervista Alessandro Invernizzi ha ricordato come Farinetti ha saputo trasformare una commodity in un marchio, ma anche sostenuto che la vendita «per l’Italia è una cosa bella, non riusciamo a fare sistema ma le nostre sfide e le nostre idee sono globali». E con Coca-Cola Lurisia può arrivare ovunque «con il sapore e l’immagine dell’Italia». Le parole di Invernizzi ci portano a ricordare come in Italia esiste un precedente e si chiama San Pellegrino. Da quando lo storico marchio bergamasco è passato sotto le insegne della Nestlé i ricavi sono aumentati esponenzialmente. L’avvento di una multinazionale alla guida dell’azienda lombarda ha permesso uno sviluppo che probabilmente non sarebbe stato possibile o che comunque la proprietà precedente, i Mentasti, non sarebbe stata in grado di garantire. La storia di San Pellegrino non comincia con gli svizzeri: il fascino del brand e il posizionamento nella fascia alta delle acque minerali erano già asset dell’azienda, ma Nestlé ha deciso di farne un marchio globale convogliando su quel progetto risorse che provenivano fuori dal sistema Italia e che sono state investite in una politica favorevole al territorio (le sorgenti, come è noto, non si possono delocalizzare). Ci siamo trovati dunque davanti a un caso di allocazione ottimale delle risorse, quasi una «politica industriale involontaria» che ha permesso uno sviluppo che altrimenti non ci sarebbe stato. Né dal punto di vista quantitativo né da quello qualitativo che ha portato alla decisione di investire a San Pellegrino Terme sulla factory of the future, progettata dall’archistar Bjarke Ingels e la cui prima pietra è stata posata proprio venerdì scorso.
Non dimentichiamo poi che Nestlé aveva in casa un altro marchio iconico come il francese Perrier e ha saputo evitare l’ingorgo e il «fuoco amico» specializzandolo come bevanda da bar. Con Lurisia assisteremo a un bis? C’è sicuramente da sperarlo, anche perché la mossa di Coca-Cola è un implicito riconoscimento alle capacità degli imprenditori italiani (tantissimi) nel far crescere alcuni marchi a tassi del 10 o addirittura 20% annui. «Atlanta era alla disperata ricerca di sviluppo ma era incapace di provvedere da sola», commenta Luigi Consiglio, presidente di Gea, Consulenti di direzione. Per questo ha pagato Lurisia 16 volte l’Ebitda e 4 volte i ricavi. I colossi, dunque, secondo Consiglio in questa fase «sembrano a corto di idee» anche se ovviamente dispongono di risorse e di presenza sui mercati tali da far presagire un nuovo caso San Pellegrino.
Del resto Coca-Cola viene da risultati contraddittori nel lancio di nuovi prodotti. È stata giudicata un fallimento dal mercato la linea di succhi Minute Maid (soprattutto limonata e arancia) mentre un caso opposto è l’acquisizione dell’inglese Innocent Drinks (frullati ed estratti vegetali). È evidente come le multinazionali siano alla ricerca di idee nuove che modifichino il mix del loro business e in qualche modo le riposizionino rispetto al mutamento degli stili di vita dei consumatori. Mutuando il linguaggio dell’high tech potremmo quasi dire che ci troviamo di fronte a una dinamica di open innovation. Consiglio suggerisce poi un altro caso interessante, quello che riguarda la joint-venture paritetica Starbucks-Princi che premia il valore e la qualità della bakery del socio italiano anche in relazione a un gruppo come quello del caffè yankee, che quanto a innovazione di prodotto è considerato un caso di studio. Possiamo di conseguenza pensare che la vendita di Lurisia non sia l’ultima e che altri brand italiani siano già nel mirino delle multinazionali «a corto di idee». Che fare? Carlin Petrini la sua risposta l’ha data ma il mercato andrà in un’altra direzione. E non è detto che per l’alimentare italiano sia una disdetta. In molti del resto sostengono che ci sia bisogno di un cambio di passo e che le lamentele sull’italian sounding siano solo auto-consolatorie.